Domenica XXV del Tempo Ordinario

La vigna

Nella figura della vigna, apparentemente semplice e quotidiana, la Scrittura condensa una realtà molto ricca e profonda, sempre più densa di significato, mano a mano che i testi si avvicinano alla rivelazione piena in Gesù. Nel primo libro dei Re è narrata la vicenda violenta che investe Nabot, un semplice suddito del corrotto re Acab, il quale possedeva una vigna, piantata, per sua sventura, proprio vicino al palazzo del re. Il racconto ci fa comprendere quanto la vigna fosse importante, una proprietà inviolabile: per niente al mondo Nabot l’avrebbe ceduta, come disse: «Mi guardi il Signore dal cederti l’eredità dei miei padri!». Per amore di essa, egli perse la vita. Dunque la vigna rappresenta il bene più prezioso, l’eredità della famiglia, per certa parte, l’identità stessa della persona; non la si può svendere, cedere ad altri, barattare con altri beni, che non riuscirebbero a eguagliarla. Essa nasconde una forza vitale, spirituale.

Isaia  ci dice chiaramente che sotto la figura della vigna è significato il popolo di Israele, come sta scritto: «La vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita». Questo popolo il Signore ha amato di amore infinito ed eterno, sigillato da un’alleanza inviolabile; lui se ne prende cura, proprio come farebbe un vignaiolo con la sua vigna, facendo di tutto perché essa possa dare i frutti più belli. Israele siamo ognuno di noi, tutta la Chiesa: il Padre ci ha trovato come terra desolata, riarsa, devastata, ingombrata dai sassi e ci ha coltivati, ci ha vangati, concimati, irrigati ad ogni istante; ci ha piantati come vigna scelta, tutta di vitigni genuini. Che cosa ancora avrebbe potuto fare per noi, che già non abbia fatto? Nel suo abbassamento infinito, il Signore si è fatto vigna Egli stesso; è diventato la vite vera, di cui noi siamo i tralci; si è unito a noi, così come la vite è unita ai suoi tralci. Il Padre, che è il vignaiolo, continua la sua opera d’amore in noi, perché portiamo frutto e pazientemente aspetta; lui pota, lui coltiva, ma poi invia noi a lavorare, a raccogliere i frutti da offrirgli. Siamo inviati al suo popolo, ai suoi figli, quali figli noi stessi, quali suoi discepoli; non possiamo tirarci indietro, rifiutare, perché siamo stati fatti per questo: perché andiamo e portiamo frutto e il nostro frutto rimanga. Signore, volgiti; guarda dal cielo e vedi e visita la tua vigna.

La promessa: un denaro

Il padrone della vigna stabilisce come ricompensa del lavoro della giornata un denaro; una somma buona, che permetteva di vivere degnamente. Ma nel racconto evangelico questo denaro viene subito chiamato con un altro nome dal padrone; dice infatti: «quello che è giusto ve lo darò». Nostra eredità, nostro salario è il giusto, il buono: il Signore Gesù. Egli, infatti, non dona, non promette altro che se stesso. La nostra ricompensa è nei cieli, presso il Padre nostro. Non è il denaro che veniva utilizzato per il pagamento della tassa pro-capite ai Romani, su cui c’era l’immagine e l’iscrizione del re Tiberio Cesare, ma qui c’è il volto di Gesù, il suo nome, la sua presenza. Egli ci dice: «Io sono con voi non solo per oggi, ma tutti i giorni, fino alla fine del mondo; Io stesso sarò la tua ricompensa».

L’invio

Il testo offre alla nostra vita un’energia molto forte, che scaturisce dai verbi «inviare, mandare» e «andare», ripetuto due volte; entrambi riguardano noi, ci toccano nel profondo, ci chiamano e ci mettono in movimento. È il Signore Gesù che ci invia, facendo di noi degli apostoli: «Ecco, io vi mando». Ogni giorno egli ci chiama per la sua missione e ripete su di noi quel: «Andate!» e la nostra felicità è nascosta proprio qui, nella realizzazione di questa sua parola. Andare dove lui ci manda, nel modo che lui ci indica, verso le realtà e le persone che lui ci pone davanti.

La mormorazione, il brontolio

Parole importantissime, vere e tanto presenti nella nostra esperienza di vita quotidiana; non possiamo negarlo: esse abitano anche il nostro cuore, i nostri pensieri, a volte ci tormentano, ci sfigurano, ci stancano profondamente, ci allontanano da noi stessi, dagli altri, dal Signore. Sì, in mezzo a quegli operai che si lamentano e brontolano, mormorando contro il padrone, ci siamo anche noi. Il rumore della mormorazione viene da molto lontano, ma ugualmente riesce a raggiungerci e si insinua nel nostro cuore; Israele nel deserto ha mormorato pesantemente contro il suo Signore e noi abbiamo ricevuto in eredità quei pensieri, quelle parole: «Il Signore ci odia, per questo ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto per darci in mano agli Amorrei e sterminarli »  e dubitiamo sulla sua capacità di nutrirci, di condurci avanti, di proteggerci: «Sarà capace Dio di preparare una tavola nel deserto?». Mormorare significa non ascoltare la voce del Signore, non credere più al suo amore per noi. Allora ci scandalizziamo, ci irritiamo fortemente contro il Signore misericordioso e ci indigniamo contro il suo modo di agire e vorremmo cambiarlo, rimpicciolirlo secondo i nostri schemi: «È andato ad alloggiare da un peccatore! Mangia e beve con i peccatori!». Se ascoltiamo bene, queste sono le mormorazioni segrete del nostro cuore. Come guarire? San Pietro suggerisce questa via: «Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri, senza mormorare»; solo l’ospitalità, cioè l’accoglienza, può, piano piano, cambiare il nostro cuore e renderlo ricettivo, capace di portare dentro di sé le persone, le situazioni, le realtà che incontriamo nella vita. «Accoglietevi», dice la Scrittura. È proprio così: dobbiamo imparare ad accogliere, prima di tutto, il Signore Gesù, così com’è, col suo modo di amare e di rimanere, di parlarci e cambiarci, di aspettarci e attirarci. Accogliere lui e accogliere chi ci sta accanto, chi ci viene incontro; solo questo movimento può sconfiggere l’indurimento della mormorazione.

La mormorazione nasce dalla gelosia, dall’invidia, dal nostro occhio cattivo, come dice il padrone della vigna, Gesù stesso. Lui sa guardarci dentro, sa penetrare il nostro sguardo e raggiungerci nel cuore, nell’anima. Lui sa come siamo, ci conosce, ci ama; ed è per amore che lui tira fuori da noi il nostro male, toglie il velo dal nostro occhio cattivo, ci aiuta a prendere coscienza di come siamo, di ciò che ci vive dentro. Nel momento in cui dice: «Forse il tuo occhio è cattivo?», come sta facendo oggi, in questo Vangelo, lui ci guarisce, prende l’unguento e lo spalma, prende il fango fatto con la sua saliva e unge i nostri occhi, fino all’intimo.

Il cerchio della gioia

Un giorno, non molto tempo fa, un contadino si presentò alla porta di un convento e bussò energicamente. Quando il frate portinaio aprì la porta di quercia, il contadino gli mostrò, sorridendo, un magnifico grappolo d’uva.

“Frate Portinaio”, disse il contadino, “sai a chi voglio regalare questo grappolo d’uva che è il più bello della mia vigna?”.

“Forse all’abate o a qualche padre del convento”.

“No, a te!”.

“A me?”. Il frate portinaio arrossì tutto per la gioia. “Lo vuoi dare proprio a me?”.

“Certo, perché mi hai sempre trattato con amicizia e mi hai aiutato quando te lo chiedevo. Voglio che questo grappolo d’uva ti dia un po’ di gioia”. La gioia semplice e schietta che vedeva sul volto del frate portinaio illuminava anche lui.

Il frate portinaio mise il grappolo d’uva bene in vista e lo rimirò per tutta la mattina. Era veramente un grappolo stupendo. Ad un certo punto gli venne un’idea: “Perché non porto questo grappolo all’abate per dare un po’ di gioia anche a lui?”.

Prese il grappolo e lo portò all’abate.

L’abate ne fu sinceramente felice. Ma si ricordò che c’era nel convento un vecchio frate ammalato e pensò: “Porterò a lui il grappolo, così si solleverà un poco”. Così il grappolo d’uva emigrò di nuovo. Ma non rimase a lungo nella cella del frate ammalato. Costui pensò, infatti che il grappolo avrebbe fatto la gioia del frate cuoco, che passava le giornate a sudare sui fornelli, e glielo mandò. Ma il frate cuoco lo diede al frate sacrestano (per dare un po’ di gioia anche a lui), questi lo portò al frate più giovane del convento, che lo portò ad un altro, che pensò bene di darlo ad un altro. Finché, di frate in frate, il grappolo d’uva tornò al frate portinaio (per portargli un po’ di gioia). Così fu chiuso il cerchio. Un cerchio di gioia.

Non aspettare che inizi qualche altro. Tocca a te, oggi, cominciare un cerchio di gioia. Spesso basta una scintilla piccola piccola per far esplodere una carica enorme. Basta una scintilla di bontà e il mondo comincerà a cambiare.

L’amore è l’unico tesoro che si moltiplica per divisione: è l’unico dono che aumenta quanto più ne sottrai. E’ l’unica impresa nella quale più si spende, più si guadagna; regalalo, buttalo via, spargilo ai quattro venti, vuotati le tasche, scuoti il cesto, capovolgi il bicchiere e domani ne avrai più di prima.

Stampa Articolo Stampa Articolo

 

Articolo precedente

Esaltazione della Santa Croce

Articolo successivo

Domenica XXVI del Tempo Ordinario