XXVII domenica del tempo ordinario

“Il giusto vivrà per la sua fede”, promette il profeta Abacuc al popolo oppresso dall’invasione del nemico (i Caldei) che aspetta con ansia di essere liberato dall’oppressione. Invita alla fiducia, alla perseveranza nell’attesa e alla costanza nel subire la prova che la coazione comporta. Esorta quindi alla fede in Chi, unico, può ristabilire ogni equilibrio e riportare pace e serenità e liberazione, ponendo fine alle angosce e alle ansietà. La fede, cioè il credere e l’affidarsi, farà superare ogni prova e porrà fine allo sconforto e aprire il cuore a Dio che ci si manifesta anche nel negativo aiuta a che il negativo si consideri solo come ostacolo inevitabile ma superabile.

Ma in tutto questo, proprio perché è indispensabile la fede, c’è anche un invito all’umiltà e alla conversione: occorre anche industriarsi per non meritare ad oltranza i castighi che abbiamo dovuto subire una volta. La giustizia di Dio è un guadagno certo e inequivocabile; dove non è in grado di intervenire l’uomo, Dio s’immette e realizza, opera e trasforma a vantaggio dell’uomo. La giustizia divina è correlata peraltro alla sua fedeltà, per cui Dio non smentisce se stesso (2Tm 2, 13) e non delude le nostre attese. Nella prova occorre aver fede e sperare sapendo attendere eventi migliori.

Cionondimeno è indispensabile anche (per ciò stesso) aprire il cuore all’Assoluto e abbandonare ogni sorta di presunzione personale. In una parola umiliarsi davanti a Dio e convertirsi, operando un itinerario di seria trasformazione di se stessi che prescinda dalle insufficienze umane per riconoscere a Dio il suo giusto primato e il suo dominio su ogni cosa. L’umiltà, la conversione e la fede apportano poi copiosi frutti di rinnovamento globale, di cambiamento e di trasformazione del mondo a partire da noi stessi che non possono non essere notati dal mondo che ci circonda. Il giusto vivrà quindi perché è stato talmente umile da compromettersi e da cambiare radicalmente se stesso con la finalità della fede. Sulla quale poggerà la sua speranza e a partire dalla quale procederà la carità frugifera di ogni bene e di ogni vantaggio. L’umiltà è insomma alla radice della fede, perché ne è l’inizio; è la virtù primaria che mette in condizioni di guadagnare ogni altra virtù. Se la fede è in grado di spostare le montagne, non potrà mai farlo senza che l’umiltà faccia da gru. S. Agostino osserva che “l’orgoglio ha trasformato gli angeli in diavoli; l’umiltà rende gli uomini uguali agli angeli”; una prerogativa quindi di elevatezza che dona la vita perché è in grado di trasformare in meglio la vita stessa.

Non è casuale quindi che Gesù auspichi in noi una fede “in grado di sradicare alberi e di gettarli in mare”, ma allo stesso tempo esiga anche un’umiltà “inaudita” ed eroica, che ci sproni al servizio sottomesso, servile e disinteressato. Per aver fede occorre essere umili, e la perseveranza in questa umiltà dev’essere tale da fare di noi dei servi “inutili”. Secondo qualche esegeta questo termine si rende con “non avere utili”, cioè non ottenere compenso o guadagno alcuno. Come quel servo che, tornando stremato dalla fatica e dalla spossatezza nei campi, non può aspettarsi bontà e considerazione dal suo padrone cinico e perverso che pretende di essere da lui servito a tavola senza possibilità di respiro, così il nostro servizio dovrebbe essere umile, dimesso e disinteressato al punto da non sperare ricompensa alcuna e da considerare solo un dovere qualsiasi incombenza ci venga richiesta. Un servizio quindi speculare di vera umiltà e di sottomissione che escluda qualsiasi interesse anche indiretto, che ci faccia considerare servi privi di guadagno e di diritti, avendo come unica risorsa la certezza della ricompensa divina.

La nostra vocazione è quella di umiliarci per poter credere e con questo sperare e confidare, senza arrenderci alle allettanti seduzioni dell’antico avversario che agisce sotto forma di compromesso e di lassiamo secolarizzante.

E se il padrone di quel servo succitato ha omesso di avere comprensione verso la generosità laboriosa di quell’operaio, il vero padrone della messe, Dio, non mancherà nel suo Figlio Gesù Cristo di chinarsi per servire alla tavola della salvezza chiunque gli sarà rimasto fedele nella fede, nella speranza e nella carità, forte della sua misericordia e della fedeltà con cui mai ha omesso di di intervenire premurosamente.

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