XXIII dom del Tempo Ordinario

Questa domenica si parla di miracoli e questa è materia che smuove gli animi: chi si entusiasma e chi si arrabbia. Chi si entusiasma spesso ha avuto esperienza diretta, o almeno molto vicina, della Grazia di Dio, perché è successo qualcosa di eccezionale, più o meno eclatante, oppure perché è successa la cosa giusta proprio al momento giusto; da qui ci crede realmente ai miracoli, ne parla come qualcosa di possibile, talmente possibile, facile, vicino che basta allungare la mano.

L’altro lato del campo di gioco è composto dagli scontenti: sono tali per la motivazione diametralmente opposta, cioè non è successo niente quando invece era necessario un qualcosa che venisse direttamente dalle mani di Dio.
Penso che oggi il vangelo ci aiuti a fare luce.
Tutte e due le categorie commettono lo stesso errore.
Forse qualcuno si fermerà qui, ma è un rischio da correre.

Focalizzarci sul miracolo come atto eccezionale spesso rivela che il pensiero di fondo non è sul fare, o vivere, la volontà di Dio, ma combattere per custodire uno status quo, un equilibrio di vita minacciato da malattie e morte.

Nella colletta abbiamo pregato il Signore che:”scegli i piccoli e i poveri per farli ricchi nella fede ed eredi del tuo regno”; è tutto un programma. Quello che conta non è stare bene o male, una vita lunga o corta, ma è incontrare, “toccare con mano” come direbbe la prima lettera di Giovanni, il Signore della vita. Se crediamo che questa non è l’unica versione della vita che siamo chiamati a vivere, noi possiamo pensare che qualsiasi cosa ci accade la possiamo usare per incontrare Gesù, il salvatore che ci porta al Padre. Al contrario se siamo convinti che sta tutto qui, allora è facile sentire la disperazione di chi si sente solo ad affrontare il dolore: la vive come un’ingiustizia lacerante. Spesso poi si smette anche di pregare perché si percepisce l’inutilità di giocare al tiro alla fune con Dio.

Noi abbiamo pregato che il Signore a quei poveri li riempie di fede e gli dona il Regno eterno (ripeto eterno): solo a partire da questa prospettiva (se vi ricordate è l’annuncio alla sinagoga di Nazareth, quello che gli procura un tentato omicidio da parte dei concittadini) si legge l’esperienza umana senza sbandare ogni due per tre.

Gesù viene da fuori la “Terra Santa”, e gli presentano subito un sordomuto (noi sappiamo che chi è sordo non sa e non può parlare, perché non ha mai sentito i suoni e non sa di poterli produrre, anche se adesso la situazione è un pochino migliorata) perché facesse il suo lavoro di Messia e di guaritore, invece qui comincia l’opera di Gesù, si manifesta la sua missione in modo che più chiaro non c’è.

Prima cosa porta fuori il muto dalla folla: lontano dal clamore e dal sensazionalismo, dalla sbornia delle emozioni, lo porta lontano dal giornalista di turno che chiede se stare male faccia proprio male e se vuole perdonare qualcuno o qualcosa…

Sembra quasi dire che adesso ci siamo solo io e te, lascia fuori tutte le inutilità, non ti accontentare più delle briciole, questo è un momento di grazia.

E poi fa qualcosa che, alla nostra sensibilità (non parliamo poi di questo momento segnato dal distanziamento), sembra disdicevole: si bagna con la saliva le dita e poi tocca le orecchie del sordo.
Strano, no?

Ci sono miracoli asettici: “vai a casa e tuo figlio è guarito” servi, figli, persone amate. Basta una parolina e via, ma qui il miracolo è molto più “materiale”.

Ovviamente questi gesti sono simboli. Se pensiamo alla saliva come fiato condensato allora si capisce che Gesù sta facendo lo stesso gesto che Dio Padre ha fatto durante la creazione dell’uomo stesso.

La missione di Gesù è quella di portarci a compimento perché noi siamo un cantiere incompiuto, abbiamo ricevuto la vita ma non è ancora la vita completa (definitiva, eterna): per questo abbiamo bisogno che Gesù ci apra gli occhi per vedere e le orecchie per ascoltare, altrimenti noi avanziamo a tentoni, ci perdiamo tutto il bello della vita, la musica dell’amore di Dio.

Qui si tratta di scegliere di rimanere questo simulacro d’argilla o di ricevere la vita vera: tutto quello che ha dovuto sopportare nella vita ha mostrato a quell’uomo cosa gli mancava, noi invece siamo ancora convinti che ci manca solo un pizzichino di sale e non ci rendiamo conto di quanto siamo solo sbozzati, un lavoro appena iniziato.

Ma pensiamo a chi fa il genitore: veramente sa ascoltare il figlio o pensa di avere tutte le risposte? Chi può dire di essere un buon interprete del matrimonio? Chi non usa “stampelle” per traghettare la giornata? È la logica dell’aiutino, dello spostare l’attenzione dalle cose serie a quelle vane solo per “smuovere la classifica”.

La parola “Effata!”, apriti, è così potente nel mostrare l’azione di Dio che la liturgia l’ha presa così com’è per il rito del Battesimo.

Oggi ogni orecchio è chiamato ad aprirsi per ascoltare la novità di Gesù: tu sei un figlio amato di Dio che è buono, ogni cosa su questa terra è un frutto del suo amore e va vissuta sempre in relazione a Lui, anche la malattia, anche il dolore e la morte.

Oggi Gesù pronuncia l’effatà (apriti) al tuo cuore che non riesce più ad amare e a perdonare; rompe l’accerchiamento di quelle parole vuote che non producono nulla. Finalmente puoi ascoltare i fratelli che hai al fianco, la loro gioia e il loro dolore, senza sentirti defraudato o minacciato, contento per loro. Riesci ad ascoltare la voce del Signore che da sempre ti guida: è come ritrovare il filo rosso che non ti fa perdere nemmeno in un labirinto.

Non conta la salute o no, conta questo incontro: pensate che se potessimo chiedere a quell’uomo guarito se avesse paura di soffrire ancora, cosa risponderebbe? Io penso che per tutto il tempo che è stato sulla terra l’ha vissuto da uomo libero che sa che l’attende a casa un Padre che lo vuole abbracciare.

Allora la malattia la possiamo trasformare in un’occasione: ovviamente è dolore, è perdita di sicurezze, è paura dell’oggi e ancora di più del domani; eppure è in quella povertà che ci toglie ogni illusione di autosufficienza, che possiamo riprendere il cammino verso il Padre: perché Gesù è venuto da noi per fare questo.

Allora lasciamoci prendere per mano e uscire dalla confusione, dal gusto di stordirci per non dover affrontare tante domande e alziamo gli occhi verso Gesù, perché oggi contempliamo la sua potenza.

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