XIV domenica del tempo ordinario
Dopo duemila anni – più o meno – da quella missione raccontata da Luca nel Vangelo di oggi, la Chiesa ancora gioisce tornando al suo Signore dopo le piccole e grandi missioni ma, ahimè, deve sempre continuare a domandarsi se gioisce per il motivo giusto: se gioisce per aver annunciato il Regno, o se gioisce perché stato solo un “gran successo”!
Se per quei 72 il “Regno di Dio”, che Gesù mandava ad annunziare davanti a sé, non aveva ancora i contorni della Resurrezione di Gesù, quindi della forma stessa della Vita eterna (=Regno di Dio), per noi Chiesa del terzo millennio non ci sono scuse: l’annuncio che Gesù ci manda a portare, il Vangelo, con tutte le sue fatiche e le sue gioie, non è solo un “messaggio sull’avvento del Regno di Dio”, ma il reale motivo della gioia che si compie nella nostra stessa vita. Gesù è chiaro: non rallegratevi perché persino i demoni si sottomettono a voi (effetto secondario e non necessario dell’esigenza missionaria del Vangelo!) ma rallegratevi che voi (i vostri nomi) siete destinati al Regno stesso, alla resurrezione (… sono scritti nel cielo). Per chi si rende missionario, centrare tutta l’attenzione sulla Resurrezione vuol dire non solo annunciare agli altri il Vangelo -ricordo che tutto il Vangelo si può riassumere nella frase “Cristo è Risorto”!- ma vivere personalmente quella gioia senza fine che rende il messaggio evangelico affascinante e causa stessa di gioia e pace.
Al contrario, se la nostra missionarietà è vissuta senza il centro assoluto che è la Resurrezione, per la nostra vita e per il nostro annuncio, il mandato missionario che Gesù consegna rischia di doversi appoggiare su qualcosa di collaterale e non necessario che può assumere una forma di soddisfazione o insoddisfazione, ad esempio: riuscire o non riuscire a costruire una chiesa, aver avuto o non aver avuto “ascolto” o “successo di pubblico”, cose che hanno, in realtà, più a che fare più con le logiche umane di potere e soddisfazione che col vero servizio gioioso e disinteressato alla missione. Partire per essere missionari da un “centro” differente da quello della Resurrezione, può portare anche ad una forma lecita di potere (anche i demoni si sottomettono…), ma quel potere, sia pure lecito e giustificato, non è il fine della missione né dei discepoli né di Cristo stesso: fine della missione è annunciare quella salvezza per cui Cristo stesso ha consumato la sua vita affinché giovi a tutti; motore della missione è la gioia di appartenere a quella salvezza e di poterla condividere con tutti.
Un missionario smette di essere tale quando si appropria di ciò che deve solo custodire, amministrare e distribuire. Si smette di essere missionari anche senza rendersene conto, si può tradire la missione scambiando il mezzo missionario con il fine della missione stessa, come si può gioire non per l’essere figli salvati ma per essere coloro che salvano. Il missionario che porta gioia annunciando la resurrezione, e quindi la salvezza, è colui che vive in forza e per causa dello stesso annuncio che porta, da salvato, da figlio di Dio. Se la gioia che porta è la gioia di un motivo diverso dalla salvezza, questa gioia non annuncia e non trasmette, può dare soddisfazione, può anche costruire cattedrali immense ma, ai fini delle missionarietà, lascia sempre il tempo che trova.
Ci sono delle consolazioni a conforto del missionario, cose di cui non deve mai fare a meno, oltre, ovviamente, al nutrimento che gli da Cristo Parola e Cristo Pane e alla preghiera: la certezza/consolazione che se il Signore gli impedisce, nella sua missione, di “costruire una cattedrale” vuol dire che non ce ne era bisogno; certezza/consolazione che se nessuno ascolta la sua voce e nessuno si converte, non vuol dire che nessuno ha ascoltato e nessuno si convertirà (Charles De Focauld insegna!); certezza/consolazione che la Vigna non è sua né sua responsabilità diretta ma del Vignaiolo, il Padre, che sa sempre quello che fa, anche se a noi “sembra assente” dalla Vigna stessa; certezza/consolazione che, se in buona fede, nella disposizione sincera del cuore, nell’umile accettazione di essere solo un operaio, non può esserci errore missionario o pastorale che ci strapperà dal suo Amore, dall’essere Figli, testimoni ed eredi della Vita Eterna.
In un mondo che si nutre di risultati, di apparenze, effimere e virtuali soddisfazioni, trovare un motivo di gioia qualsiasi è molto facile, le stesse facili gioie di cui ci si può nutrire avendo un “potere” qualsiasi, perfino il potere che deriva dalla missione ecclesiale, dalla Parola stessa, di “scacciare i demoni” può diventare una gioia “sbagliata” se non inquadrata nel fine stesso della missione, annunciare la salvezza, tanto per capirci: che i demoni obbediscano e si “annullino” di fronte all’annuncio è sempre una buona cosa, che questo diventi il fine esclusivo del missionario non è cosa buona! Se nella casa liberata dal demonio non viene ad abitare la gioia della propria ed altrui salvezza, quella casa ci metterà poco ad essere ripopolata ancora dai demoni e, probabilmente, in misura più grave (Lc 11,24-26). È la stessa logica del miracolo che deve essere preso come un “segno” della salvezza e dell’amore di Dio e non fine a se stesso per la fede in Dio: che mi serve che mi ricrescano le gambe o guarisca da un terribile tumore se poi non credo nell’amore di Dio che mi salva e mi dona la vita eterna?
Le gioie “collaterali” alla gioia grande della salvezza, il missionario deve ricavarle come conforto dalle parole stesse di Gesù: non siamo soli, egli ci invia in unità (… a due a due); la messe o la vigna non è del missionario, è il padrone che vi provvederà sempre (Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe); nulla mancherà al nostro bisogno (… chi lavora ha diritto alla sua ricompensa); il nostro fallimento missionario non sarà mai causa del nostro fallimento personale (…non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite…); rimanendo fedeli nulla ci potrà danneggiare (… nulla potrà danneggiarvi.).
Dobbiamo sempre fare memoria, ringraziare (= fare eucarestia), per non cadere nelle tentazioni delle gioie effimere, solo chi sa ringraziare della salvezza, che ci è donata e di cui facciamo ogni giorno memoria, sa vivere la gioia più grande; solo la vera umiltà che nasce dalla parola “grazie” scaturisce la fonte perpetua della gioia stessa; solo chi parte da un ringraziamento può farsi veramente missionario a servizio di un dono che è la salvezza stessa!
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