XIII domenica del tempo ordinario

Placata la tempesta di cui abbiamo ascoltato la narrazione la scorsa settimana, Gesù e i suoi discepoli approdano in territorio straniero, nella Decapoli. Là, guarisce un indemoniato, ma è costretto dagli abitanti di quella regione a fuggire, perché la guarigione dell’indemoniato era avvenuta attraverso l’eliminazione di una mandria di cinquemila porci, l’unica fonte di sussistenza per quella gente. La sua prima missione all’estero, quindi, non era stata un granché: non gli resta – come esordisce il vangelo di oggi – che tornare all’altra riva, in patria, dove si sente al sicuro perché subito gli si raduna intorno una grande folla. La propria terra, le proprie radici, la propria cultura, anche la propria religione rappresentano, per ogni uomo e ogni donna, una certezza, una sicurezza: nel nostro ambiente, ci sentiamo sempre a casa. Quasi sempre…

Per Gesù, infatti, questa affermazione non è proprio così vera: sin dall’inizio trova ostilità tra i suoi compaesani di Nazareth, nei confronti dei quali sentenzierà il famoso proverbio “Nessuno è profeta in patria”. Ma anche nel territorio più allargato della terra d’Israele, Gesù incontra opposizione: non tanto nelle masse, nella folla – che, come ci dice per ben tre volte il Vangelo di oggi, gli si accalcava intorno forse anche solo per ottenere qualche favore – quanto tra i capi del popolo, tra le autorità religiose, che per invidia non tollerano la sua popolarità, e per deformazione professionale e mentale non tollerano il suo modo “diverso” di intendere la fede nel Dio dei loro padri. E che Gesù sia venuto a stravolgere i fondamenti della fede, o meglio della religiosità dei capi del popolo e del popolo stesso da loro educato, lo si vede bene nel brano di vangelo di questa domenica.

Ci sono due episodi di guarigione, apparentemente slegati tra di loro, uno dei quali (quello della donna affetta da emorragia) collocato quasi come una parentesi, ritenuto secondario rispetto all’episodio principale, la resurrezione di una ragazzina di 12 anni. Sono invece quei 12 anni a legare la vicenda delle due donne, una malata da 12 anni e una che muore a 12 anni: e dal momento che il numero 12 è il simbolo delle tribù di Israele, forse Marco vuole già dirci qualcosa, ovvero che tutto ciò che è legato alla religiosità dell’Antico Testamento non può che far ammalare e condurre alla morte, e quindi c’è bisogno di qualcuno che riporti salute e vita al popolo di Dio. Un popolo che comunque è sempre figlio di Dio Padre: e le due donne sono entrambe “figlie”, una del capo della sinagoga, l’altra dello stesso Gesù, che si rivolge a lei con questo termine, invece del più usuale “donna”. Entrambe con la morte dentro, entrambe figlie di una religiosità che uccide, ritrovano la vita: le loro vicende non sono affatto slegate. Ed è proprio l’episodio “tra parentesi”, quello della guarigione dell’emorroissa, che ci dà il senso della grandezza e della novità del messaggio di Gesù rispetto al nostro rapporto con Dio: non ci salva la nostra religiosità, ci salva la nostra fede; non ci salva l’osservanza delle leggi di una religione vecchia e superata, ci salva l’adesione libera a un rapporto di figliolanza e di amore con Dio, ovvero la fede.

La religiosità vecchia e ammuffita dell’antico – anzi, meglio dire del “vecchio” – popolo d’Israele impediva a quella donna malata di ottenere la salvezza: non ci erano riusciti i medici, che a quanto pare avevano pure lucrato sulla sua malattia, ma non ci sarebbe potuto riuscire nessuno, forse neppure Dio, dal momento che a lei era impedito andare al tempio (perché la sua impurità l’avrebbe profanato, e con esso tutti i fedeli presenti), a lei era impedito avere una vita affettiva normale (perché la sua impurità avrebbe reso impuro un eventuale marito o compagno), a lei era impedito di stare in mezzo alle persone (perché la sua impurità avrebbe reso tutti quanti impuri). Peggio ancora se avesse “toccato” anche solo accidentalmente qualcuno: entrambi rischiavano l’esclusione dalla comunità, la scomunica. Ma la fede di questa donna è più forte della mentalità religiosa nella quale è cresciuta; il primato della sua coscienza è più forte della folla che si accalca attorno a Gesù impedendole di avvicinarsi. E infatti, di nascosto, da dietro, tocca anche solo il lembo del suo mantello: non vuole scomodare il Maestro, si accontenta delle briciole di grazia che egli sa dispensare a chi crede in lui. E se fosse per lei, tutto sarebbe filato liscio così: guarigione ottenuta, salvezza e vita ritrovata.

Ma non è così per Gesù, che a costo di passare per insulso chiedendo “Chi ha toccato le mie vesti?” a una folla che sicuramente lo spintonava, la fa uscire allo scoperto, e non certo per fargliela pagare, ma perché – racconta ancora Marco – dicesse “da davanti” “tutta la verità”. Sì, perché la verità va detta “davanti”, di fronte, non di nascosto, non dietro le spalle come le menzogne e le maldicenze; e la verità di questa donna è che lei è stata salvata non da una religiosità che chiude, emargina, rifiuta, uccide (pensa, questa religiosità uccide anche una ragazzina di 12 anni… del resto, è “figlia del capo della sinagoga”, di uno che è capo della religione e che invece per vederla guarita dovrà avere fede) ma da una fede che dona vita perché va alla ricerca dell’essenziale, del contatto diretto con Dio. Un Dio che non esclude, ma che accoglie; un Dio che non vuole sottostare alle regole della Legge, ma che dona alla Legge uno spirito nuovo; un Dio che salva non chi è ligio ai precetti della religione, ma chi dimostra di avere fede in lui nonostante da tutti sia considerato “impuro”, reietto, escluso, diverso, pericoloso.

Questo episodio è di tremenda attualità, nella Chiesa; e ci insegna che una religione che esclude non è una religione, ma una setta; una comunità che non accoglie, non è una comunità, ma una casta; una Chiesa fatta di gente che allontana gli impuri, che isola i peccatori, che addita chi ha fallito nella vita, che esclude dalla piena comunione quelli a cui la vita ha negato la bellezza di un amore sereno, che giudica quelli che sono diversi (diversi da chi, poi?), che ha da ridire sulla libertà delle persone di credere e anche di non credere in Dio, che sa di muffa invece che di aria pura, che sa di morte invece che di vita… non può essere una Chiesa. Di certo, non è la Chiesa che Gesù ha voluto.

È così bello credere nel Dio della vita: perché mai dovremmo farlo ammuffire chiuso in una scatola fatta di regole, di giudizi e di pregiudizi?

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