VIII domenica del tempo ordinario

Il discorso apertosi con le “Beatitudini”, si conclude in Luca, con un insegnamento per i discepoli, chiamati a diventare a loro volta, guide per altri, con la parola e con la propria vita.

L’occhio guarda, discerne il cammino da percorrere, valuta l’agire, la qualità – più o meno buona – di un albero carico di frutti. Altro è vedere, infatti, altro è guardare. Non si tratta di fermarsi alla superficie delle cose, di delimitarne i contorni della realtà, ma di penetrare con l’intelligenza del cuore, interpretare, discernere e giudicare ciò che è buono e ciò che non lo è. Mi sorprende sempre questo Gesù che sposta l’attenzione dalle parole allo sguardo, dall’insegnamento da trasmettere a ciò che gli occhi vedono; perché prima di parlare, di giudicare, di sentenziare, è necessario saper vedere.

«Può forse un cieco guidare un altro cieco?». Se gli occhi sono chiusi o malati, che lo sappiamo o no, facciamo sfracellare con noi, anche coloro che ci stanno accanto, coloro che accompagniamo o addirittura pretendiamo di guidare.

Siamo ammalati di presunzione, convinti di sapere tutto e non abbiamo neppure l’umiltà di riconoscere che «un discepolo non è più del maestro». Pensiamo di metterci in cattedra al posto di Gesù, dimenticando che la sua, è la cattedra più scomoda che esista: la croce.

Ancora, siamo così intenti ad etichettare, a incasellare gli altri nei nostri giudizi sommari, da non avere il tempo di guardarci dentro, nei nostri occhi, nel nostro cuore. Sappiamo scovare anche la più impercettibile pagliuzza negli occhi del fratello, piuttosto che ammettere di avere addirittura una trave nei nostri occhi e fare in modo di toglierla. Quante volte giudichiamo gli altri, magari ingigantendo i loro difetti, e chiudiamo gli occhi sui nostri, facendo finta di non accorgerci che cadiamo rovinosamente negli stessi errori? Ci autogiustifichiamo, ci illudiamo che le nostre maschere e i nostri patentini di impeccabilità, ostentati con gli altri, riescano a coprire la nostra ipocrisia. Sì, è l’ipocrisia che ci rende ciechi, capaci solo di vedere lontano e mai vicino, di ingigantire le colpe degli altri e minimizzare le nostre. Ma, a lungo andare, saranno i frutti a rivelare bontà o meno della nostra vita.

Ecco perché il Maestro ci esorta ad aver cura del tesoro del nostro cuore, perché è da esso che è possibile trarre fuori il bene come anche il male. «La bocca, poi, esprime ciò che dal cuore sovrabbonda» e il mondo sa riconoscere le parole vuote da quelle che invece coinvolgono la vita e comunicano bellezza.

La miopia di tante nostre analisi (anche pastorali), lo scollamento dalla vita di tante nostre prediche zeppe di ricercatezze, il nostro rimanere ancorati ad un passato fastoso e rassicurante piuttosto che lasciarci “scaraventare” dal Vangelo sulle strade della nostra gente, continua a fare di noi guide cieche e ipocrite. Lasciamoci spodestare da questa Parola che ci è stata donata, evitiamo di edulcorarla, facciamo sì che metta a nudo la nostra debolezza e lasciamoci guarire nel profondo. Solo così saremo guide sagge, che non hanno paura di mostrarsi per quello che sono: orgogliosamente imperfetti, ostinatamente amati e perdonati dal Padre.

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