V domenica del tempo ordinario

Siamo alla fine della prima giornata di vita apostolica di Gesù secondo Marco, una giornata notevole: iniziata con la chiamata dei primi quattro, proseguita con l’esorcismo nella sinagoga e, nel pomeriggio, la guarigione della suocera di Pietro (sì, perché quello che poi sarebbe diventato il primo papa, era sposato). Se mancassero situazioni complesse, questa prima giornata accade di sabato.

Il comandamento del Sabato è da sempre quello a cui Israele è più legato, quello che dà identità, perché è vissuto come la festa della settimana: l’anticipo del paradiso. Certo è che il precetto del sabato è passato per delle deformazioni, a volte pesanti, come focalizzarsi solo nel non lavoro (interpretazione contro la quale Gesù si scontrerà a ripetizione), ma sempre rispettato.

Quel sabato Gesù guarisce un indemoniato nella sinagoga, ma quello aveva ancora il carattere dell’emergenza, ma quel pomeriggio fa due cose sbagliate per uno che vuole fare il Messia (ovviamente sbagliatissime per i farisei): guarisce la suocera di Pietro e, per guarirla, la tocca. Dobbiamo sempre ricordarci che non c’è niente di inutile nella Parola di Dio, anche dettagli come prendere una per mano, Marco lo scrive apposta (mentre ad esempio non ci dice niente di come era vestito Gesù, di quanto fosse grande la casa di Pietro o se avesse figli, etc.) per indicare che Gesù fa due forzature alla Legge, forse proprio perché compie il sabato stesso: entra nella sinagoga e proclama la Parola, svela e scaccia il demonio, guarisce dal male i suoi e li ridona alla vita, capaci ora di essere un dono per gli altri, questa è l’opera, la missione del Messia. Solo che è difficile da riconoscere perché è così impastata nella quotidianità, non c’è la colonna sonora, non ci sono le telecamere a cogliere la lacrima, non ci sono i sagacissimi commenti social, è tutto troppo normale.

Eppure Gesù oggi fa delle cose che sono programmatiche: compie la Legge, facendoci vedere che quando siamo orgogliosi pensando di aver capito tutto di Dio, quando lo abbiamo reso un teorema sempre verificabile, non ci abbiamo capito niente.

Quando abbiamo mandato Dio così in alto nel cielo, forse è solo il modo per allontanarlo: Gesù è sceso dal cielo per salvarci e ha scelto di farlo condividendo la nostra vita, proprio nella durezza e nella fatica della nostra vita.
Insomma questo miracolo è emblematico.

Gesù lo fa di sabato: perché è il giorno in cui il Signore sta vicino all’uomo e lo aiuta a benedire la sua vita (per questo non si lavora, perché ne facciamo un altro di lavoro…) perché è chiamato a riconoscere i passi di Dio insieme ai propri.

Tocca una persona malata: non ha paura di contaminarsi con le nostre ferite o malattie (il lebbroso, l’emorroissa, la figlia di Giairo, etc.) perché è venuto per condividere il nostro dolore e a darci una speranza (la risposta al dolore di Giobbe della prima lettura) vera, la speranza che si fonda sul riconoscere Gesù vicino a noi.

La guarisce: non ha paura di sfidare i pregiudizi dei benpensanti che credono di avere capito tutto (oggi sono quelli che si indignano a comando, persone dalla vita social effervescente, quelli che ci insegnano quali parole si possono o non si possono più dire), per il mio bene Gesù è capace di perdere anche la faccia (3 anni dopo sarebbe salito su una croce come un malfattore comune).

La suocera si alza e si mette a servirli: qualcuno qui ci potrebbe vedere la durezza di un mondo che non lascia neanche il tempo della convalescenza, tutt’altro. Qui Marco indica che una vita che è stata guarita dal contatto con Gesù, non è più capace di capirsi chiusa in sé stessa: la nostra vita è diventata un dono per gli altri (liberamente avete ricevuto e liberamente date).
Tutto bello, ma poi?

Eh sì, perché Gesù non apre un ospedale (anche se al tramonto del sole vengono tutti gli altri che avevano rispettato le regole del sabato e Lui li guarisce), anzi, se ne va.

La seconda parte è ancora più sconvolgente della prima: Gesù non ha paura di deludere le aspettative, anche giuste, di quelli che volevano essere guariti da Lui e fa due cose, pure questa emblematiche: si alza presto per andare a pregare e poi parte.

Pregare: è il contatto col Padre, è la sua forza e il suo nutrimento, poiché sta col Padre (non come stava prima dell’Incarnazione, adesso con tutta la pesantezza della condizione umana) è in condizione di far entrare noi in quella comunione divina, e di farlo proprio quella mattina presto, in quella timida luce dell’alba in cui si intuisce qualcosa del cuore stesso di Gesù.

Se ne va, ovviamente non perché è stanco o per calcolo, ma perché ci svela una priorità: io sono venuto a portare il vangelo. Perché è il vangelo che salva, la nostra vita non è il nostro corpo: prima o poi questo miracolo vivente del nostro corpo si fermerà, perché non è stato fatto per continuare all’infinito su questa terra: ha uno scopo, quello di fare la volontà del Padre. Tutto ci serve per incontrarLo, addirittura il dolore ce lo possiamo giocare come la possibilità definitiva dell’incontro con Colui che ci salva per sempre.

Come Gesù non ha paura di deludere i benpensanti, allo stesso modo non ha paura di deludere i buoni e i poveri: tutti abbiamo bisogno di sollevare la testa e di accorgerci che davanti a noi c’è il Signore che ci salva. Chi deve allontanarsi dai propri schemi fatti per alleviare l’angoscia della vita e chi dalle proprie sofferenze che pretendono di ridurre tutta la vita a risolvere quel problema.

La fede è incontro con Gesù che ci salva e poi lasciare le sicurezze e metterci in cammino con Lui: i discepoli avevano iniziato lasciando le barche e le loro famiglie, qui devono lasciare le sicurezze (la voglia di insegnare al Messia a fare il Messia) e mettersi in marcia. Essere discepoli non si riduce all’appartenenza (che pure significa molto) ma è la sequela, Lui cammina e noi lo seguiamo, ascoltando il suo vangelo.
Buon cammino

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