III domenica di Pasqua

Il Vangelo di oggi ci parla di qualcosa che nell’immaginario collettivo suscita sempre timore e curiosità: ci parla, infatti, di “fantasmi”. Siamo ancora nel contesto dei racconti di apparizione, ovvero delle testimonianze dirette che i discepoli danno di Gesù Risorto: qui si narra del ritorno dei due discepoli che, nel buio della notte, percorrono di corsa la dozzina di chilometri che separa il loro villaggio, Emmaus, da Gerusalemme, per riferire ai loro compagni l’incontro che avevano avuto con il Risorto, e come lo avessero riconosciuto nello spezzare il pane, senza tuttavia poterlo trattenere con loro. Il Maestro era scomparso, proprio come un fantasma, dalla loro vista: e come un fantasma, riappare in quel momento in mezzo al gruppo dei discepoli. Lo spavento – uno spavento misto a sorpresa e incredulità – prende il sopravvento su di loro, e nemmeno il saluto di serenità che Gesù rivolge loro – “Pace a voi” – riesce a tranquillizzare i loro animi: hanno ancora la netta sensazione di trovarsi di fronte a un fantasma.

Ma che cos’è un “fantasma”? Qual è il significato di questa parola? Al di là delle sue descrizioni grottesche e cinematografiche fatte di lenzuoli che volano tra le stanze polverose di castelli abbandonati con due buchi al posto degli occhi, la parola “fantasma” deriva dal greco, da un verbo che significa “apparire”, “farsi vedere”, “prendere sembianza”. Passando alla lingua latina, assume più il significato di “apparenza” come lo intendiamo noi, ovvero di immagine generata dalla “fantasia”, di proiezione “fantastica”: tutti termini legati appunto al “fantasma”. Il “fantasma” ci descrive, quindi, un’immagine, un’entità, una figura, un pensiero, che per quanto sia percepibile dalla nostra mente e dai nostri sentimenti, è vuota, impalpabile, sospesa in uno stato simile a uno spirito, a un soffio. Non ha sostanza, non ha realtà, né vitalità, né corpo: eppure è un’ombra che può risuonare dentro di noi anche come una voce, e che proprio per questo ci può spaventare.

E ci spaventa anche per il fatto che lo associamo spesso a una dimensione legata al tempo, al presente, al passato e al futuro: letto al presente, può essere il fantasma lusinghiero, attraente, di un successo facile e a portata di mano ma che poi svanisce come nebbia al mattino nel momento in cui questo successo si rivela tutt’altro che facile; i fantasmi del passato sono angosce e paure di qualcosa che, pur essendo terminato, torna a inquietare la nostra vita; mentre una minaccia ipotetica o il pensiero di qualcosa che si delinea a tinte oscure e terribili all’orizzonte può rappresentare il fantasma del futuro. Tutta la nostra esistenza, quindi, può essere scandita dalla presenza costante di fantasmi che non necessariamente sono proiezioni della nostra fantasia, bensì si fondano su qualcosa di concreto, di reale che ci spaventa perché non sappiamo come affrontarlo.

A questo, si aggiunge quella dimensione “fantastica” che ci porta a vivere alcune realtà della nostra vita come “proiezioni” della nostra mente perché le riteniamo “cose dello spirito” non legate alla realtà concreta di ogni giorno: tra queste, la fede rischia di essere vissuta da molti come un “fantasma”, come qualcosa che appartiene alla dimensione fantasiosa della mente, che – anche in senso positivo – proietta in sé desideri di cose che vanno al di là della vita reale, al di là della vita terrena, al di là della quotidianità, nella speranza di qualcosa che ora non c’è ma che un giorno potremmo possedere.

Noi non sappiamo di preciso che tipo di “fantasma” abbiano visto in Gesù Risorto i suoi discepoli, i quali certamente sono rimasti spaventati, forse perché avevano ormai messo da parte il pensiero su di lui, o forse perché ancora non sapevano come affrontare il presente della sua morte, ma soprattutto il futuro di quella parola di speranza che il Maestro aveva loro affidato. Di certo, sappiamo cosa si affretta a fare il Risorto perché i suoi discepoli – e noi con loro – smettano di pensare a lui come a un fantasma. Fondamentalmente, fa due cose: mostra loro le mani e i piedi con i segni della passione, e mangia con loro. Ossia, mostra a loro che il suo essere lì, in mezzo a loro (“in mezzo”, tra l’altro, quindi “alla pari”, come uno di loro, e non come il Maestro che sta “di fronte”), è fatto di dolore e di morte (simboleggiato dai segni della passione) ma anche di desiderio di vita (di cui il mangiare è segno chiarissimo). Non può essere certo un fantasma del passato, né del presente, né del futuro, una persona viva che porta in sé i segni della sofferenza e del dolore ma anche e soprattutto i segni della voglia di continuare a vivere.

Dio non è un fantasma, e la fede non è la proiezione fantasiosa di qualcosa che desideriamo ma che non ci è dato di avere; il Dio di Gesù Cristo è un Dio “in carne e ossa”. Il Dio di Gesù Cristo è un Dio che nella sua carne ha provato tutti gli elementi della sofferenza, proprio come ognuno di noi, e che sulle sue ossa e intorno alle sue ossa costruisce la struttura portante di un corpo che ha forza e desiderio di vita.

Essere cristiani alla luce della Risurrezione significa, allora, accettare tutto ciò che di più profondamente umano è parte della nostra vita, tutto ciò che è reale, concreto, fatto di carne e ossa: con tutti i limiti della carne e con tutta la forza delle ossa, con tutti i limiti di una vita segnata continuamente dalla prova, dal dolore, dalla sofferenza, dalla malattia e dalla morte, ma anche con tutta la forza della gioia di vivere, della speranza, del desiderio di ricominciare ogni giorno da capo, della bellezza delle cose che ci circondano, della profondità e dell’intensità delle esperienze che proviamo – belle o brutte che siano – sulla nostra pelle, dell’amore che proviamo per le persone che ci stanno accanto e dell’amore che gli altri provano per noi. Tutte queste cose, un fantasma non le prova. E Gesù oggi ce lo dice chiaro: “Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho!”.

E allora, smettiamola con una fede campata in aria che aspetta solo la messa domenicale per trovare un momento di serenità, chiudendo fuori dalla porta della chiesa la vita reale, come fecero i discepoli chiusi nel cenacolo a difesa delle proprie sicurezze: la vita, e la vita di fede, ci aspetta di fuori, ci vuole testimoni in mezzo a tutti i popoli, a partire dalla nostra Emmaus da ogni giorno; “cominciando da Gerusalemme”, come ci ha chiesto oggi il Maestro, cioè da tutte quelle realtà che vorrebbero avvolgerci nell’ombra della morte ma alle quali noi dobbiamo annunciare vita.

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