II domenica di Quaresima
Solo chi ha fatto esperienza della luce non si rassegna al buio e alle tenebre, ma le attraversa con quella “riserva” di luce che custodisce nella memoria del cuore.
E provo ad immaginare il Maestro alle battute finali del suo cammino, mentre, dopo l’accoglienza entusiastica che ha caratterizzato l’inizio della missione in Galilea, adesso, la sua parola e i suoi gesti stanno sperimentando diffidenza, ostilità, rifiuto. Nel respiro di questa incredulità, Gesù intuisce il futuro che si sta profilando davanti ai suoi passi e inizia ad annunciare ciò che lo attende a Gerusalemme. È in piena crisi. I suoi non lo comprendono e vorrebbero addirittura ostacolarlo “per il suo bene”. I capi del popolo cercano solo l’ennesimo pretesto per farlo fuori. Gesù sale sul monte, come già tante volte aveva fatto, per cercare la relazione con il Padre e discernere la sua volontà. Ma stavolta porta con sé tre dei suoi, perché vedano e siano testimoni di quella meta luminosa che è la Pasqua, e conservino nel cuore un po’ di quella luce per quando ce ne sarà bisogno.
E penso ai passi di Gesù che si inerpica sul monte, mentre chiaramente gli si profilava davanti la sagoma di un altro monte, quello su cui sarebbe stato innalzato da terra per attirare tutti a sé. Roba da far venire le vertigini al solo pensiero, ma «la vertigine non è (soltanto) paura di cadere, ma voglia di volare». E Gesù, pur con tutta la fatica di ogni uomo, si getta tra le braccia del Padre perché sa che mai lascerà cadere, persino quando le apparenze diranno l’esatto contrario. Così, sul Tabor, Gesù comprende il senso del suo cammino verso Gerusalemme, ritrovando, attraverso l’ascolto di Mosè e di Ella, il mistero del Padre che dimora nella terra segreta del suo cuore. E poi quella luce abbagliante, da togliere il fiato, che dialoga con la luce che Gesù ha dentro e che abbiamo anche noi. Quella luce che gli permetterà di camminare anche in mezzo alle tenebre che gli si vanno addensando attorno, convinte di poterlo fagocitare. Certo, non c’è niente di più fragile di questa piccola luce che ciascuno si porta dentro. È simile ad un bambino che ha bisogno di essere custodito per vivere, ma basta guardarlo negli occhi, stringerlo tra le braccia, per capire che quel cucciolo d’uomo, che dipende in tutto da te, ti dona, con il suo esserci, più di quanto tu possa dare a lui.
Ecco cosa è stato per i discepoli lo spettacolo della trasfigurazione: un anticipo circoscritto nel tempo e nello spazio della luce e della bellezza che è Dio. E quando ci torneranno con la memoria dopo gli eventi della Pasqua, riconosceranno che la luce, per quanto custodita nella fragilità della propria carne ferita, è più forte di ogni notte, anche la più nera, e splenderà sempre, ostinata, tra le tenebre. «Le nuvole – infatti – non possono annientare il sole». Ecco perché non abbiamo da temere: il nostro è il Dio ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita.
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