I domenica di Avvento

La prima domenica di Avvento segna l’inizio di un nuovo anno liturgico.

Cosa c’è di nuovo? Cosa ricomincia veramente? Semplicemente un calendario da cui strappare pagine un po’ alla volta? No, non siamo di fronte alla monotona ripetizione di un almanacco sempre uguale a se stesso, così ovvio e scontato da essere afono. L’indicazione liturgica va letta, in realtà, nella consapevolezza che al credente è data la possibilità di un inizio nuovo, di una ripartenza, di una nascita nuova, qualunque sia la situazione che si attraversi. Sempre, e a tutti, è donata l’opportunità di ricominciare, secondo l’insegnamento di abba Antonio che, ormai novantenne e senza forze, a chi gli domandava cosa facesse ogni mattina appena sveglio, rispondeva prontamente: Oggi, ricomincio!

Tale cominciamento è poi contestualizzato dai testi biblici che annunciano il giorno grande e terribile del Signore, la parusia, il ritorno nella gloria del Signore Gesù, accompagnato da eventi sconvolgenti, angosciosi e calamitosi che genereranno ansia e angoscia.

Non è una contraddizione unire l’annuncio di una speranza certa con l’evocazione di una terribile fine del mondo? Non dovrebbero escludersi a vicenda? C’è forse un senso più profondo?

Alzatevi e levate il capo – chiede l’evangelista (Lc 21,28) che è un modo per dire alza lo sguardo, allarga le prospettive; non fermarti solo a ciò che vedi intorno a te; non sostare troppo sulle tue granitiche convinzioni, spesso rifugio sicuro per chi non vuol osare.

Alzare il capo è invito ad aprire gli occhi su una promessa che incede in mezzo alle tribolazioni; su una possibilità offuscata per il troppo dolore ma efficace.

Il testo evangelico non offre il fianco a nessun pessimismo né ad una impropria sovrapposizione tra eventi catastrofici, fine del mondo e ritorno del Signore: il linguaggio apocalittico è messaggio di speranza non di sventura. La menzione delle catastrofi ha il gusto antico della sapienza e contiene l’invito a comprendere che la speranza cristiana non è fuga mundi, indifferenza alle cose della terra ma chiamata a non chiudere gli occhi, lasciando alle spalle visioni troppo spiritualistiche o falsamente ottimistiche. Essa ha i piedi ben ancorati sulla terra e il cuore largo quanto l’orizzonte.

C’è una speranza dentro e mentre accadono le cose di questo mondo e non solo oltre.

C’è una speranza – forse nascosta, diversa da come la immaginiamo ma non per questo meno reale – dentro i fatti dell’oggi, nella quotidianità, dentro le contraddizioni del presente. C’è una radice santa di senso e di significati dentro ogni tassello di vita anche e soprattutto in quelli che meno sembrano poterla generare.
C’è una vita in ogni morte.

La speranza, poi, si nutre di vigilanza (Lc 21,34), capacità di non appesantire il cuore, di non rinchiuderlo in una fortezza pur di non soffrire e trasformare la fortezza in prigione. Vigilare significa non perdere lucidità su sé stessi, lottando contro l’abitudine che anestetizza gli occhi, spegne il cuore, raffredda lo spirito, ghiaccia lo zelo, invecchia l’amore.

Il riferimento evangelico alle dissipazioni, alle ubriachezze e agli affanni della vita offre uno sguardo nuovo sulla quotidianità: non viene biasimato ciò che costituisce un aspetto importante della vita (bere/mangiare e lavorare) ma è consegnato un interrogativo sul come, sul perché ciò viene vissuto. C’è anche qui un grande insegnamento: di tutto ciò che siamo e facciamo ce ne possiamo servire per dormire, per rimanere anestetizzati, per non vegliare. Facendo leva sulla somiglianza di pronuncia fra i due termini greci prosoché (attenzione) e proseuché (preghiera), alcuni autori spirituali hanno sottolineato la correlazione esistente tra le due realtà che, in tempi più recenti, viene così sviluppata da Simone Weil: L’attenzione, al suo grado più elevato, è la medesima cosa della preghiera. Suppone la fede e l’amore. L’attenzione assolutamente pura è preghiera. Essere attenti comporta avere occhi aperti sul proprio cuore, chiedersi quali lotte sta attraversando, da quali moti è abitato, interrogarsi se si vive alla presenza di Dio, nel ricordo attento della sua parola.

Vegliate in ogni momento! (Lc 21,36) perché può accadere – ed accade! – di svendermi alla fretta e alla superficialità, ubriacandomi della banalità dei giorni, delle corse da inseguire, di una prestazione da mantenere sempre alta. Si annega nella superficialità non nella profondità.

Altro nutrimento della speranza è l’attesa, la capacità di desiderare.

Non facciamo forse tutti esperienza di essere mancanti di qualcosa a cui non sappiamo dare un nome e pur tuttavia sappiamo che essa segna la nostra incompiutezza? Noi attendiamo noi stessi e non potremo mai pienamente riempire o soddisfare questa attesa. Già in questi giorni si accendono le luci di Natale: sempre più in anticipo, ogni anno un po’ prima. Ma non saper attendere, non saper più aspettare forse accederà le luci ma spegnerà il desiderio.

L’Avvento, tuttavia, ci consegna una promessa: sulle nostre attese, anche quelle meno evidenti, più faticose, quelle di cui siamo consapevoli e quelle ci sfuggono, sulle nostre attese prenderà dimora il Signore Gesù. Egli, il Primo e l’Ultimo, darà completezza e luce a quanto ci portiamo dentro. Ma quando? Solo alla fine? Solo in un futuro così lontano da non vederne i confini? Quando e dove si compirà la promessa di Dio?

Il nostro desiderare è il luogo dove inizia a compiersi la promessa di Dio. Saremo ciò che desideriamo, saremo ciò che attendiamo, saremo la passione con cui abitiamo il presente. Sì, il futuro non è solo fattore cronologico ma è orizzonte di senso con cui abitiamo il presente; è sguardo aperto sull’invisibile, elogio della piccolezza, scommessa di possibilità inimmaginabili. Quando abitiamo così i nostri giorni, già essi profumano di futuro. Proprio allora il futuro inizia a compiersi: alzate dunque il capo perché la vostra liberazione è vicina (Lc 21,28): è vicina, prossima, è accanto a te, è la tua stessa vita colma di speranza.

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