Domenica VI di Pasqua

Esegesi del brano Gv 14, 15-21

Questi versetti ci conducono nel luogo santo in cui Gesù ha celebrato l’ultima cena con i suoi discepoli: luogo della sua rivelazione, della sua gloria, del suo insegnamento e del suo amore. Qui siamo invitati anche noi a sedere a mensa con Gesù, a chinarci sul suo petto per ricevere il suo comandamento e prepararci, così, ad entrare anche noi, con lui, nella Passione e nella risurrezione. Dopo il brano di 13,1-30, che racconta i gesti, le parole, i sentimenti di Gesù e dei suoi durante la cena pasquale, con 13,31 entriamo nelle parole dell’ultimo discorso di Gesù, che terminerà con la preghiera sacerdotale del cap. 17. Qui siamo ancora agli inizi; in 14,1-14 Gesù si era presentato quale via al Padre, mentre in questi pochi versetti introduce la promessa dell’invio dello Spirito Santo, quale consolatore, quale presenza certa, ma anche la promessa della venuta del Padre e di lui stesso nell’intimo dei discepoli che, per la fede, avranno creduto in lui e avranno custodito i suoi comandi.

Il Padre

Questa presenza appare subito come il punto di riferimento di Gesù, il Figlio; è a lui che egli indirizza la propria preghiera. Dice, infatti: «Io pregherò il Padre». È questo contatto così particolare e intimo che fa di Gesù il Figlio del Padre suo, che lo conferma continuamente in questa realtà; la relazione d’amore con il Padre viene alimentata e tenuta in vita proprio dalla preghiera, fatta durante le notti, nei momenti del giorno, nella necessità, nella richiesta di aiuto, nel dolore, nella prova più straziante. Se ripercorriamo i Vangeli, molte volte, troveremo Gesù così, preso nella relazione col Padre suo attraverso la preghiera. Posso leggere alcuni passi: Mt 6,9; 11,25; 14,23; 26,39; 27,46; Lc 21,21s; 6,12; 10,21; 22,42; 23,34.46; Gv 11,41s; 17,1. Sento che questa via è anche per me; Gesù l’ha percorsa fino in fondo, lasciandomi le sue tracce luminose e sicure, perché io non abbia paura di seguirlo in questa esperienza. Anch’io sono figlio del Padre, anch’io posso pregarlo.

Subito dopo il Padre viene presentato da Gesù come Colui che dona. Il donare, infatti, è la caratteristica principale di Dio, che è dono ininterrotto, senza misura, senza calcolo, a tutti e in ogni tempo; il Padre è Amore e l’Amore dona se stesso, dona ogni cosa. Non gli basta averci donato Gesù, il suo Figlio prediletto, ma vuole ancora beneficarci, ancora offrirci vita e ci invia lo Spirito Santo. Infatti, come sta scritto: «Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?» (Rm 8,32).

Ma ancora di più: il Padre ci ama (Gv 14,23; 16,27)! E questo suo amore ci fa passare dalla morte alla vita, dalla tristezza del peccato alla gioia della comunione con lui, dalla solitudine dell’odio alla condivisione, perché l’amore di Dio porta necessariamente all’amore per i fratelli.

Il Figlio Gesù

In questi pochi versetti la figura e la presenza di Gesù emergono con una forza, una luminosità enormi. Egli appare subito come l’orante, colui che prega il Padre a nostro favore; alza le mani in preghiera per noi, così come le alza in offerta sulla croce. Gesù è colui che non se ne va per sempre, che non ci lascia orfani, ma che ritorna: «Io tornerò». Se sembra assente, non devo disperare, ma continuare a credere che lui, davvero, tornerà. «Sì, verrò presto!» (Ap 22,20). Tornerà e, come ha detto, ci prenderà con sé, perché siamo anche noi dove è Lui (Gv 14,3). Gesù è il vivente per sempre, il vincitore della morte. Egli è nel Padre ed è in noi, con una forza onnipotente, che nessuna realtà può sopraffare. Lui è dentro il Padre, ma anche dentro di noi, abita in noi, rimane in noi; non c’è altra possibilità di vita vera e piena, per noi, se non in questa compenetrazione di essere che il Signore Gesù ci offre. Lui dice sì, incessantemente e non si pente, non si ritrae. Anzi! Egli ci ama, come il Padre ci ama e si manifesta a noi. Si dona, si offre, lasciandosi conoscere da noi, lasciandosi sperimentare, toccare, gustare. Ma è una manifestazione che va attesa con amore, come dice Paolo (2 Tm 4,8).

Lo Spirito Santo

In questo brano lo Spirito del Signore sembra quasi la figura emergente, che abbraccia ogni cosa: egli unisce il Padre al Figlio, porta il Padre e il Figlio nel cuore dei discepoli; crea un’unione d’amore insolvibile, unione di essere. Viene subito chiamato col nome di Paraclito, cioè Consolatore, colui che rimane con noi sempre, che non ci lascia soli, abbandonati, dimenticati; egli viene e ci raccoglie, dai quattro venti, dalla dispersione e soffia dentro di noi la forza per il ritorno al Padre, all’Amore. Solo lui può operare tutto questo; è il dito della mano di Dio che, ancora oggi, scrive sulla polvere del nostro cuore le parole di un’alleanza nuova, che non potrà più essere dimenticata. È lo Spirito della verità, cioè di Gesù; in lui non c’è inganno, non c’è menzogna, ma solo la luminosità certa della Parola del Signore. Egli ha costruito la sua abitazione in noi; è stato inviato e ha compiuto il passaggio da presso di noi a dentro di noi. Si è fatto una cosa sola con noi, accettando questa unione nuziale, questa fusione; egli è il buono, l’amico degli uomini, è l’Amore stesso. Per questo si dona così, riempiendoci di gioia. Guai a rattristarlo, a cacciarlo via, a sostituire la sua presenza con altre presenze, altre alleanze d’amore; noi ne moriremmo, perché nessuno potrebbe più consolarci al posto suo.

I discepoli

Le parole dirette ai discepoli di Gesù sono quelle che mi interpellano più da vicino, con maggior forza; sono per me, entrano nella mia vita di ogni giorno, raggiungono il mio cuore, i miei pensieri, i miei desideri più nascosti. Mi è richiesto un amore vero, che sappia trasformarsi in gesti concreti, in attenzione alla Parola e al desiderio di colui che dico di amare, il Signore. Un amore verificabile attraverso la mia osservanza dei comandamenti. Il discepolo, poi, appare, qui come colui che sa aspettare il suo Signore, che ritorna; a mezzanotte, al canto del gallo, o già quando è mattino? Non importa; lui ritornerà e perciò occorre aspettarlo, stando pronti. Che amore è un amore che non veglia, che non custodisce, non protegge?

Il discepolo è anche uno che conosce; si tratta di una conoscenza donataci dall’alto, che si realizza nel cuore, cioè nella parte più intima del nostro essere e della nostra personalità, là dove noi prendiamo le nostre decisioni per agire, là dove comprendiamo la realtà, formuliamo i pensieri, vediamo, amiamo. È la conoscenza in senso biblico, che nasce da un’esperienza forte, prolungata, intima, nasce da un’unione profonda e dal dono reciproco. Questo avviene tra lo Spirito e il vero discepolo di Gesù. Una conoscenza inarrestabile, sempre in espansione, che ci porta al Cristo, al Padre e ci pone dentro la loro comunione d’amore, eterna, infinita: «Saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi». Il discepolo è anche colui che vive, che è in, cioè dentro, in un’unione inscindibile col suo Signore; non rimane alla superficie, a distanza, a intervalli, ma lui è dentro il rapporto d’amore sempre. Ci va lui stesso, torna e ritorna, si lascia attrarre, trattenere. E così realizza la parola del Vangelo: «Chi ama me sarà amato dal Padre mio».

Il discepolo di Gesù, infatti, è un amato, un prediletto, da sempre e per sempre.

Il mondo

Il brano ci offre solo poche parole riguardo a questa realtà, che sappiamo molto importante negli scritti giovannei: il mondo non può ricevere lo Spirito, perché non lo vede e non lo conosce. Il mondo è cieco, è immerso nella tenebra, nell’errore: non vede e non conosce, non fa esperienza dell’amore di Dio. Il mondo rimane lontano, si volta indietro, si chiude, se ne va. Il mondo risponde con l’odio all’amore che il Signore nutre per esso: il Padre ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito. Forse anche noi dobbiamo amare altrettanto il mondo, creatura di Dio; amarlo unendoci all’offerta, al sacrificio di Gesù per esso.

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