Domenica IV di Quaresima

Gv 3,14-15Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Per i figli di Israele, morsi dai serpenti velenosi del deserto, Mosè offrì la possibilità di salvezza tramite la vista di un serpente di rame. Se l’uomo riesce a sollevare il capo e a guardare in alto, Dio prepara per lui un’alternativa. Non obbliga, è lì, a disposizione. Il mistero della libertà umana è quanto di più amorevole un Dio potesse inventare! La scelta di uno sguardo, di un incontrarsi, di una nuova opportunità… il Figlio dell’uomo nel deserto del mondo sarà innalzato sulla croce come segno di salvezza per tutti coloro che sentiranno il bisogno di continuare a vivere e non si lasceranno andare ai morsi velenosi di scelte sbagliate. Il Cristo è lì: benedetto per chi crede. Un frutto da cogliere, appeso al legno della vita. Anche noi come gli israeliti nel deserto siamo stati «morsi» dal serpente nell’Eden, e abbiamo bisogno di guardare al serpente di rame innalzato sul legno per non morire: «chiunque crede in lui abbia la vita eterna».

Gv 3,16Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. L’amore di Dio ci ama di amore di predilezione, un amore tangibile, un amore che parla… Poteva venire direttamente il Padre? Sì, ma non è più grande l’amore di un padre che dona il figlio? Ogni madre, potendo scegliere, preferisce morire lei piuttosto che veder morire un figlio. Dio ci ha amato al punto tale da veder morire il Figlio!

Gv 3,17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Un Dio capace di giudizio perfetto manda il Figlio non per giudicare ma per essere luogo di salvezza. Davvero è necessario azzerare ogni pensiero e sentire di fronte a tanto amore. Solo chi ama può «giudicare» cioè «salvare». Lui conosce la fragilità del cuore umano e sa che la sua immagine offuscata ha possibilità di tornare ad essere nitida, non c’è bisogno di rifarla. La logica della vita non conosce la morte: Dio che è vita non può distruggere ciò che lui stesso ha voluto creare, distruggerebbe in qualche modo se stesso.

Gv 3,18 – Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. La fede è la discriminante di ogni esistenza. Non credere nel nome dell’unigenito: questa è già una condanna, perché si esclude dall’amore chi non accoglie l’amore!

Gv 3,19-20 – E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. L’unico giudizio che investe l’umanità è la chiamata a vivere nella luce. Quando il sole sorge, nulla si sottrae ai suoi raggi… e così gli uomini. Quando Cristo nasce, nessuno può sottrarsi a questa luce che tutto inonda. Ma gli uomini si sono costruite le case per poter sfuggire alla luce dell’Amore che ovunque si espande, case di egoismo e case di opportunità. Hanno intrecciato tunnel e nascondigli per continuare liberamente a compiere le loro opere. E può un’opera priva di luce dare la vita? La luce dell’esistenza ha una sola fonte: Dio. Chi si sottrae alla luce, muore.

Gv 3,21Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio. Tutto ciò che cade sotto i raggi dell’amore eterno, si veste di luce, come accade in natura. Sembra che tutto sorrida quando sorge il sole. E le cose che durante il giorno sono familiari e belle, di notte assumono forme che incutono timore per il solo fatto di non essere visibili. Il sole non cambia la forma, ma la esalta nella sua bellezza. Chi vive la verità di se stesso e accoglie le sue fragilità come parametri del suo essere uomo, non ha timore della luce perché non ha nulla da nascondere. Sa che come creatura opera nella logica del limite, ma questo non sminuisce la grandezza del suo operare perché la sua vita è un tutt’uno con la verità eterna.

Riflessione

Il giardino diventa un deserto per l’uomo che si allontana da Dio. E nel deserto della sua libertà senza limiti l’uomo incontra ancora una volta i morsi velenosi del serpente. Dio però non abbandona i suoi figli, e quando si allontanano da lui li segue, pronto a intervenire al bisogno. Un serpente simbolo di guarigione viene innalzato ogni volta che il veleno affievolisce la vita nell’uomo, Cristo Signore. Se l’uomo preferisce guardare a terra e stare nel deserto del suo «faccio da me», Dio si offre al suo sguardo comunque nel solo modo in cui l’uomo lo riconosce: come un serpente. Cristo si è fatto peccato, maledetto, pur di salvare la sua immagine, pur di non lasciar spegnere la vita umana. La condanna non appartiene a Dio, è scelta dell’uomo. Posso non vivere accanto al calore, liberissimo di farlo. Ma ciò comporta il dovermi procurare altro genere di calore, se mi voglio scaldare. Con il rischio di provare il freddo, la fatica, la malattia… la libertà da Dio ha un prezzo di condanna. È da persone poco intelligenti non usufruire di un bene donato, è semplicemente stolto non accogliere quanto di meglio ci sia per non sentirsi debitori. Nell’ambito dell’amore la parola «debito» non esiste, perché la gratuità è l’unico vocabolario consultabile. E con la parola gratuità esplode la luce: tutto diventa possibilità e occasione. Opere fatte nelle tenebre oppure opere fatte in Dio: i simulacri di fango dal flebile luccichio di pietre false sono giocattoli pericolosi per chiunque; meglio frequentare le aule piene di sole di un discepolato mai finito! Almeno la vita si accresce e la gioia ricolma di bellezza ogni cosa…

La lampada del minatore

Un uomo scendeva ogni giorno nelle viscere della terra a scavare sale. Portava con sé il piccone e una lampada.

Una sera, mentre tornava verso la superficie, in una galleria tortuosa e scomoda, la lampada gli cadde di mano e si infranse sul suolo.

A tutta prima, il minatore ne fu quasi contento: “Finalmente! Non ne potevo più di questa lampada. Dovevo portarla sempre con me, fare attenzione a dove la mettevo, pensare a lei anche durante il lavoro. Adesso ho un ingombro di meno. Mi sento molto più libero! E poi… faccio questa strada da anni, non posso certo perdermi!”.

Ma la strada ben presto lo tradì. Al buio era tutta un’altra cosa. Fece alcuni passi, ma urtò contro una parete. Si meravigliò: non era quella la galleria giusta? Come aveva fatto a sbagliarsi così presto? tentò di tornare indietro, ma finì sulla riva del laghetto che raccoglieva le acque di scolo.

“Non è molto profondo”, pensò, “ma se ci finisco dentro, così al buio, annegherò di certo”.

Si gettò a terra e cominciò a camminare carponi. Si ferì le mani e le ginocchia. Gli vennero le lacrime agli occhi quando si accorse che in realtà era riuscito a fare solo pochi metri e si ritrovava sempre al punto di partenza.

E gli venne un’infinita nostalgia della sua lampada.

Attese umiliato che qualcuno scendesse per venire a cercarlo e lo portasse su facendogli strada con qualche mozzicone di candela.

“Lampada sui miei passi è la tua parola, Signore, luce sul mio cammino. Chi scopre la tua parola entra nella luce, anche i semplici la capiscono” (Salmo 119).

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