XXVII domenica del tempo ordinario
“L’uomo non separi ciò che Dio ha congiunto”. L’indissolubilità non è argomento secondario o accessorio. L’uomo che la deride, potremmo dire, non sa quello che fa (o, peggio, lo sa benissimo). Molti che dicono di credere ad essa la interpretano così: io ti amerò per sempre, se tu non tradirai, ma se tu tradirai, non potrò che “rifarmi una vita”.
Se l’amore non fosse dato una volta per sempre, la vita umana sarebbe disperata! Perché l’amore andrebbe sempre comprato, sedotto, conquistato! Perché l’amore dipenderebbe sempre e solo da me!
L’amore indissolubile è innanzitutto quello di Dio. Se Dio potesse dimenticare i suoi figli, quando essi si dimenticano di Lui, nessuna salvezza sarebbe data all’uomo. Il “caro prezzo” pagato per noi è la croce del Figlio. Tutto fa il Padre, perché noi possiamo essere salvati. Se c’è un prezzo da pagare – e che prezzo c’è! – ecco il Padre domandarsi: “Che devo fare? manderò il mio unico figlio, forse di lui avranno rispetto” (Lc 20, 13). E il Cristo “la morte l’ha provata a vantaggio di tutti” (seconda lettura della messa, Eb 2, 9). E dopo la morte del Figlio l’apostolo afferma: “Quanto al vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio, ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rom 11, 28). “La carità non avrà mai fine” (1 Cor 13, 8) ascoltiamo spesso partecipando alle nozze. Questa carità è innanzitutto quella di Dio.
Ma a questo, da Dio, l’uomo è chiamato. Un padre sulla terra deve comunicare al proprio figlio che niente lo allontanerà dal suo amore. Fra fratelli non devono sorgere gelosie su chi sia figlio prediletto e chi non lo sia (vedi la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli). Non deve nascere il dubbio che tu perderai l’amore di chi ti ha chiamato a vivere, se non percorrerai la sua stessa professione, se non sposerai chi da lui ti viene indicato. L’amore paterno (e materno) sarebbe in questo caso “a condizione che”. Ogni figlio sarebbe in lotta non per seguire la propria vocazione, ma per conquistare con i voti riportati, con le scelte fatte, con le obbedienze vissute la presenza del padre. Certo ogni adulto deve proporre una strada. Ma guai se essa diventa il discrimine del dono dell’amore. Chi ha chiamato, nella generazione, un altro a vivere si è anche impegnato con lui all’indissolubilità dell’amore.
Il Signore ha voluto che, nel mondo, la relazione fra l’uomo e la donna, fosse per eccellenza il sacramento dell’indissolubilità dell’amore di Dio. Certo io amo l’altra perché è così e così, perché mi ha amato, perché conosco la sua bontà e bellezza. Ma se questo spiegasse il mio amore per lei, l’amore sarebbe già distrutto. Posso comprenderlo, invece, solo come atto sovranamente libero, come miracolo. Tu non puoi dedurre il fatto che io ti amo da come tu sei fatta. E viceversa. Io non ti amo solo perché sei così, ma perché io ho cominciato ad amarti. Colui (e colei) che non comprende questo vivrà ogni istante nell’attenzione a conquistare, a sedurre, ad attirare l’attenzione (non importa se col corpo o con la mente), ma non dirà mai: “Ti ringrazio”. La gratitudine caratterizza solo chi riconosce la libertà dell’altro: “Certo, potevi non amarmi, ma…” L’egocentrismo vive anche al negativo: “Mi lascia, perché ho fatto questo!” Non sfiora neanche il dubbio, a volte, che un fidanzato possa partire senza che l’altra abbia fatto niente. L’io non convertito pretende di essere sempre l’unico centro di attività e libertà.
A tali livelli di fraintendimento è giunta la cultura moderna che la discussione non verte neanche più se sia possibile continuare ad amare chi ha smesso di farlo, quanto addirittura se abbia senso farlo! Tutto sembra proclamare: “Non ha senso un amore non amato”. San Francesco piangeva a questo pensiero, al pensiero non che un qualunque amore umano non fosse riamato, ma al pensiero che lo stesso amore di Cristo potesse lasciare indifferenti e non essere riamato. Come è possibile che Cristo ami l’uomo e l’uomo continui senza modificare di una virgola il suo cammino? Eppure, non amato, l’amore di Cristo resta amore e si manifesta come amore. La Chiesa continua allora con forza ad affermare che non solo è possibile l’indissolubilità del matrimonio, ma che, se essa non fosse vera, niente avrebbe senso nel mondo. Ognuno mendicherebbe l’amore, pronto a perderlo, incapace di riconoscere con gratitudine come esso ci preceda e ci superi.
“Non è bene che l’uomo sia solo”. Dio ha fatto talmente l’uomo per la comunione che se non la troverà, la cercherà addirittura in un animale. Quante volte sentiamo dire: “Io ci parlo con il mio cane! Mi capisce!” Questo fa la sete di comunione che Dio ha posto in cuore ai suoi figli. La sete di amore che mi guida può diventare il laccio che paralizza il mio cammino. Non dobbiamo ironizzare troppo facilmente sulle cautele che i Padri antichi mostravano nell’affrontare i temi della sessualità. Avevano, per grazia di Dio, la coscienza che nella sessualità è possibile trovarsi, come perdersi. Il lungo cammino di S.Agostino ha toccato anche queste sponde.
Lentamente si è fatta strada in lui la coscienza che “illa” (lei, la donna con cui aveva avuto un figlio, la donna di cui non conosciamo il nome) non gli bastava, non perché era una donna, ma perché la sua sete di amore anelava alla stessa verità. Spesso l’adolescente anestetizza la sua sete di comunione “mettendosi insieme”.
“Ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile”. La grazia del corpo, che Dio ha creato per noi, ci richiama però continuamente all’uscire da noi stessi. Se la mente, nel suo orgoglio o nella sua chiusura di timidezza, può pensare ad una vita di isolamento, di distanza o addirittura di disprezzo dal consorzio umano, il corpo esclama: “Questa volta essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa”. In alcune storie giovanili, quando tutto sembra chiudersi alla vita, almeno il corpo continua a gridare all’uomo: “Da solo non puoi vivere. Sei nato per la comunione. Per essa lascerai il padre e la madre”.
“Possa tu vedere i figli dei tuoi figli”. A volte non riusciamo a pensare oltre l’estate che ci attenderà ancora l’anno prossimo. Possiamo spingerci al limite della nostra vita, al giorno in cui ci addormenteremo su questa terra. Non così il cristiano, che sa di essere inserito in una lunga storia. Da duemila anni gli uomini trasmettono il dono della fede nel Cristo Signore, da una generazione all’altra. Non siamo nati ieri. La nostra storia non comincia solo con i nostri genitori o con i nostri nonni. Generazioni di cristiani, di santi, di martiri, ci hanno donato di essere ciò che siamo. Chiediamo la fecondità di guardare da questo lungo passato ad un futuro che va ben oltre il nostro sguardo storico. Nel nome del Signore siamo chiamati a trasmettere la vita e a trasmettere ad essa la fede. L’uomo non ha solo questa alternativa: o tacere o parlare di sé e del suo piccolo mondo. L’uomo continua a raccontare le meraviglie dell’opera di Dio ed essa indica alla generazione che nascerà: “Così sarà benedetto l’uomo che teme il Signore”.
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