XXIX domenica del tempo ordinario

Gesù è in viaggio verso Gerusalemme e racconta la parabola del giudice e della vedova, facendo seguito ad un suo discorso sulla venuta del regno e sull’avvento finale del Figlio dell’uomo. C’è quindi una prospettiva escatologica nel Vangelo di oggi.

L’evangelista chiarisce subito che la parabola riguarda «la necessità di pregare sempre, senza stancarsi». Dunque un insegnamento sulla preghiera, cosa che nel terzo Vangelo ha un posto particolarmente rilevante. Luca, infatti, presenta in molte occasioni Gesù in preghiera, soprattutto in momenti importanti del suo ministero e riferisce anche le sue parole; riporta, inoltre, alcune catechesi del Signore sulla preghiera.

Nella parabola è presentato un giudice che rifiutava di fare giustizia ad una vedova contro il suo avversario. Il giudice è definito come «un uomo che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno», un uomo senza fede, disonesto e insensibile. La vedova era povera e indifesa proprio per il suo stato vedovile. Questa donna andava costantemente dal giudice iniquo a chiedere giustizia ma per lungo tempo, il giudice non si è interessato a lei. Alla fine ha deciso di esaudirla, non per senso di giustizia, ma per proprio egoismo, per togliersela di torno. Infatti quella vedova gli era “molesta”, con la sua insistenza lo “importunava” continuamente.

Il Signore prendendo spunto dalla parabola, pone ai discepoli una domanda con l’intento di rafforzarli nella fiducia verso Dio. Se anche un giudice iniquo alla fine è capace di fare giustizia, a maggior ragione non la farà Dio – che è giudice giusto – ai suoi eletti che gridano a Lui? Uno schema simile si trova in un’altra catechesi sulla preghiera, lì dove – dopo aver insegnato il Padre nostro – Gesù racconta la parabola dell’amico importuno che va di notte a chiedere il pane ad un amico; anche in quel caso ci sono delle domande che mettono in luce a fortiori il comportamento di Dio (cf. Lc 11,5-13). La prospettiva è, però, diversa.

Interpretando il pensiero dei discepoli sulla “lentezza” di Dio, sulla sua apparente “inerzia” nel fare giustizia ai suoi eletti, Gesù incalza: «Li farà aspettare a lungo?» E conclude: «Vi dico che farà loro giustizia prontamente». Mentre la prima domanda del Signore riguarda la certezza della giustizia di Dio, la seconda riguarda i tempi. Non dimentichiamo che siamo in un contesto escatologico. Il verbo “aspettare” (makrothuméō) ha come soggetto Dio in questo testo e nella Seconda lettera di Pietro dove, riguardo alla questione del ritardo nel ritorno del Signore, leggiamo: «Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno. Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (3,8-9). Questo testo illumina anche l’affermazione sulla prontezza della giustizia divina. Nel libro dell’Apocalisse, all’apertura del quinto sigillo, le anime dei martiri cristiani «gridarono a gran voce “Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra?”. Allora venne data a ciascuno di loro una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli, che dovevano essere uccisi come loro» (Ap 6, 10-11). Troviamo insieme il grido degli eletti che attendono giustizia, cioè la separazione definitiva dal male, e la necessità di pazientare, adattandosi ai tempi che solo Dio conosce.

C’è, infine, l’ultima frase che l’evangelista pone sulla bocca di Gesù: «Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Questa domanda sembra aggiunta, secondo alcuni dall’evangelista e secondo altri dalla comunità lucana. Di certo crea un legame fra la preghiera con tutto quanto detto prima e la fede, sempre nella prospettiva del venuta finale del Signore.
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Fammi giustizia o Dio!

Questa implorazione è presente in diversi salmi di supplica (cf. Sal 26,1; 43,1) ed esprime la richiesta che Dio difenda l’orante dai nemici, lo liberi dagli oppressori, lo sostenga nei momenti difficili. Nei salmi, altissima scuola di preghiera, troviamo il modello della supplica fiduciosa e molto spesso lo schema prevede, dopo l’implorazione, la lode perché colui che prega è certo che il Signore interverrà in suo favore; certe volte l’intervento divino è addirittura dato come già realizzato. Il Signore vuol dirci proprio questo con la prima domanda: avere la certezza che Dio ascolterà il nostro grido. A volte pensiamo “Dio non si occupa di me”, “Dio non se ne cura” (Sal 10, 4): questo è un pensiero da stolti. La preghiera nasce dalla nostra povertà ma deve essere piena di fiducia, nella consapevolezza che non gridiamo ad un cielo vuoto, ma al Padre che ci ama. Ricordiamo le promesse di Gesù nel Vangelo: «Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto» (Lc 11, 9-10).

Una prima caratteristica della preghiera è, dunque, la fiducia. Un secondo aspetto sul quale insiste il Vangelo è la perseveranza. È dichiarata la necessità di pregare sempre, senza cedere alla stanchezza. Anche nelle lettere di Paolo questo tema ricorre spesso perché la preghiera è insidiata da tante difficoltà (stanchezza, pigrizia, sconforto, poca motivazione). La preghiera continua, che viene richiesta, va compresa non come ripetizione di preghiere ma come uno stato di comunione costante con la Trinità nelle sue Persone, una stabilità nel dialogo con Dio, un riferimento costante a Lui. Su questo sfondo si collocano le varie espressioni della preghiera: lode, supplica, lamento, ringraziamento. Accade che la nostra preghiera infiacchisca, che siamo vinti dallo scoraggiamento o da una certa delusione o frustrazione. Su questo la vedova della parabola ci è di grande esempio: lei, nella sua totale indigenza, ha la forza straordinaria della perseveranza; ha la forza della goccia d’acqua che a furia di battere sulla pietra, la scalfisce e la modella.

La prima lettura (Es 17, 8-13) è in risonanza con il Vangelo, mostrandoci almeno due cose: che la preghiera perseverante impedisce al male di prevalere e poi che nella preghiera è importante sostenerci a vicenda, sorretti dalla comunità.

Dio fa giustizia prontamente, anche quando a noi non sembra

Gesù contraddice quello che spesso pensiamo: “il Signore tarda ad ascoltarci ed esaudirci”. No! «Dio farà giustizia prontamente!». Abbiamo visto l’orizzonte escatologico di questa frase, ma cerchiamo anche di capire quelli che ci appaiono come i “ritardi” di Dio nell’oggi della nostra vita. A cosa è dovuta questa impressione? Direi al fatto che la nostra preghiera spesso non è un reale dialogo con Dio, e quindi non è una vera preghiera. Gridiamo il nostro bisogno, aspettandoci che Lui ci esaudisca subito e secondo il nostro pensiero, il nostro progetto, la nostra volontà. Partiamo dal presupposto che dobbiamo solo ricevere ascolto. La dinamica dialogica della preghiera, invece, mi pone innanzitutto in ascolto di cosa mi dice il Signore: «Ascolterò cosa dice Dio, il Signore» (Sal 85,9). Mi devo inserire nella volontà di Dio, devo essere disposto ad ascoltare quale Parola mi consegnerà per andare avanti nella situazione difficile, attraverso quali persone ed eventi mi farà andare avanti. Il Signore Gesù è maestro di questo movimento della preghiera, in modo particolare al Getsemani: «Padre, se vuoi allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tu volontà» (Lc 22,42). Se la nostra preghiera si inserirà nella volontà di Dio, potremo riconoscere anche i suoi interventi a nostro favore.

Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?

Questa domanda è in relazione al ritardo della parusia attesa come imminente dalla prima comunità cristiana e alle persecuzioni che mettevano a dura prova la fede. Anche oggi la fede è messa a dura prova, da tanti fattori. Nella domanda finale del Signore cogliamo un accento di trepidazione; anche Dio fa domande e resta nell’attesa sospesa delle nostre risposte.

Come sono belle le domande del Signore! “Troverò la fede quando ritornerò?” è domanda rivolta a ognuno di noi e alla Chiesa tutta. Non parla della preghiera, ma della fede perché è dalla fede che nasce la preghiera anche se poi le due si alimentano e accrescono reciprocamente. La lettera di Giacomo le unisce in una espressione stringente: la preghiera della fede (Gc 5,15). Questa domanda del Signore ci impegna, nel tempo che viviamo “finché Egli venga”, a custodire il dono della fede (seconda lettura: «Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e credi fermamente»), alimentarlo, trasmetterlo di generazione in generazione, farlo conoscere al mondo (seconda lettura: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e inopportuno…»), nutrirlo di preghiera perché il Signore ci trovi fedeli e vigilanti quando tornerà. Che la preghiera della fede risuoni ininterrotta nel cuore dei credenti e la Chiesa invochi incessantemente con lo Spirito:«Vieni!».

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