XXI domenica del tempo ordinario
In questa ventunesima domenica del tempo ordinario la liturgia ci propone la pericope finale del capitolo 6 del vangelo di Giovanni. Questo brano va letto tenendo a mente tutto il discorso sul pane tenuto da Gesù e che la liturgia ci ha proposto nelle domeniche scorse. ‹‹Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?›› (Gv. 6,60). Questa è la domanda che apre il vangelo di questa domenica. Qual è la parola che i discepoli considerano così dura? Nei versetti precedenti Gesù ha detto a chiare lettere di essere il pane vivo, disceso dal cielo; è addirittura arrivato a dire che chi mangia la sua carne e beve il suo sangue ha la vita eterna. Gesù sta dicendo di mangiarlo. Chiaramente questa parola, oltre ad essere dura, appare assurda. Eppure qui si gioca il grande mistero della nostra fede: mangiare Dio. Il nostro è un Dio che si fa mangiare. Cerchiamo dunque di addentrarci in questo vangelo lasciandoci guidare da tre parole che estrapoliamo dalla liturgia di questa ventunesima domenica del tempo ordinario.
La prima parola è “pane”. Il capitolo 6 di Giovanni ruota attorno a questo grande tema. Gesù insiste su questo: è lui il pane vivo, disceso dal cielo. Il pane è il cibo essenziale. Ciò che non può mancare nelle nostre tavole. Oggi questa cultura va pian piano perdendosi. Se ci sediamo a tavola con le persone anziane, il pane non può mancare. Oggi, al contrario, con molta facilità facciamo a meno del pane, perché ingrassa… eppure la grande sapienza della cultura di una volta ci insegna che il pane è il cibo per eccellenza. Il pane è il cibo essenziale, quello che sazia. Il Signore insiste su questo discorso per mettere in evidenza che lui è il cibo essenziale. È lui che sazia la nostra fame. In fondo, quando celebriamo la Messa compiamo un gesto molto naturale, che ha a che fare con il bisogno che abbiamo da quando nasciamo: mangiare. Il mistero è qui: come è possibile mangiare Dio? Gesù parla della sua carne e del suo sangue. Il discorso di Gesù, che a noi appare così astratto, utilizza invece dei termini molto concreti: carne e sangue. Per entrare in questo discorso è importante fare appello alla nostra esperienza. Quante volte in alcune relazioni ci sentiamo “mangiati”? Pensiamo a una madre e a un padre che si lasciano mangiare dai propri figli e figlie. Pensiamo a quando amiamo qualcuno: in fondo non ci lasciamo mangiare? Gesù ci invita a prendere sul serio la relazione con Dio. È qui per farsi mangiare.
La seconda parola è “intuizione”. Se Dio è qui per farsi mangiare, come posso effettivamente gustare la sua carne e il suo sangue? È qui la durezza che sperimentano alcuni discepoli all’inizio del vangelo di oggi. C’è una frase che ci aiuta a entrare nell’esperienza che Gesù ci invita a fare ed è la domanda che Pietro rivolge al Maestro: ‹‹Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio›› (Gv. 68-69). Pietro non parla di una conoscenza teorica, ma di una conoscenza esperienziale. Lui ha fatto esperienza di Dio. Il verbo conoscere nel vangelo di Giovanni non indica la conoscenza teorica, ma indica il conoscere nel senso esperienziale, di unione personale. In fondo la durezza del dubbio viene superata dall’intuizione di Pietro: da chi andremo? Lo Spirito di cui parla Gesù in questo discorso si manifesta attraverso le intuizioni del nostro cuore. Quante volte la vita ci mette di fronte a certe persone e situazioni che ci consentono di intuire la grandezza di Dio. Uno sguardo, un sorriso, un tramonto, uno stato d’animo, una parola: Dio si fa intuire e di questo possiamo farne esperienza. In questo discorso Gesù usa molte volte l’espressione ‹‹io sono››: è l’espressione tipica della rivelazione di Dio. La rivelazione del nome di Dio che Mosè ha ricevuto è stata così: io sono colui che sono. A questa rivelazione corrisponde ora la reciprocità del discepolo: tu sei il Santo di Dio. Le nostre intuizioni di Dio ci aiutano a entrare in questa reciprocità: tu ed io. Gesù non è semplicemente il pane, ma è il pane del cielo. C’è il cielo nell’umanità di Gesù. C’è qualcosa che va oltre. Questo oltre che traspare da Gesù si può intuire e se ne può fare esperienza.
La terza parola è “scelta”. Di fronte a questa intuizione, i discepoli hanno dovuto fare una scelta. Ciascuno di noi si trova in questa condizione: ‹‹volete andarvene anche voi?›› (Gv. 6,67). Arriva il momento della scelta. Siamo chiamati a scegliere da che parte stare. Non possiamo non schierarci. Anche la prima lettura insiste su questo punto: ‹‹se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire›› (Gs. 24,15). Di fronte all’intuizione di Dio e alla sua esperienza, siamo chiamati a scegliere da che parte stare. Sembra quasi che il Signore stia scommettendo. È lo Spirito che dà vita. C’è qualcosa di più grande delle nostre paure, delle nostre durezze e dei nostri dubbi: è il mistero di Dio. Questo episodio segna una svolta: da qui in poi alcuni sceglieranno di andarsene, altri di rimanere. Dio ha a cuore la nostra libertà. Chi ama davvero ha a cuore la libertà dell’amato/a. La relazione con Dio non può essere astratta. L’amore è una scelta, non è un obbligo. Quando ci si sposa si pronunciano proprio queste parole: io scelgo te come mia/o sposa/o. La relazione con Dio porta in sé il primato della grazia e richiede la libera scelta da parte nostra.
In questo momento della mia esistenza, a che punto sono nella relazione con Dio? Sento la fame di lui? Entrare nel suo mistero è fare esperienza della sua presenza, a volte terribilmente discreta, ma che si lascia intuire e toccare; anzi… mangiare.
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