XIV domenica del tempo ordinario
Pare fin troppo scontato individuare nelle letture di questa domenica il tema della persecuzione a causa del Vangelo, o comunque della Parola di Dio. Lo vediamo nella prima lettura, dove Dio annuncia a Ezechiele che il suo invio in mezzo al popolo d’Israele come profeta non sarà una cosa pacifica, in quanto è un popolo di gente “intestardita e dal cuore indurito”; lo leggiamo nello sfogo di Paolo ai cristiani di Corinto, ai quali l’apostolo racconta delle “debolezze, degli oltraggi, delle difficoltà, delle persecuzioni e delle angosce sofferte per Cristo”; lo ascoltiamo nel racconto di Marco, che riporta la cronaca di un giorno di sabato trascorso da Gesù nella sua patria, a Nazareth, insegnando nella sinagoga; giorno che termina con i suoi compaesani “scandalizzati” dal suo insegnamento e dalle sue opere. Il tutto, si può ben sintetizzare nell’affermazione di Gesù – divenuta ormai proverbiale – “un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”.
Non credo, tuttavia, che l’attenzione dell’evangelista Marco si focalizzi sul disprezzo nei confronti di Gesù da parte della sua gente, e sulla persecuzione che ne può conseguire, quanto su ciò che Gesù pensa dei suoi compaesani: “E si meravigliava della loro incredulità”.
Che un profeta non fosse mai ben accetto da parte della propria gente alla quale Dio lo invia, è noto sin dalle pagine dell’Antico Testamento, e non fa certo specie: pensiamo alla figura di Elia, di Geremia, dello stesso Ezechiele e di tutti i grandi e piccoli profeti d’Israele. Per sua stessa natura (e l’aggettivo “profetico” lo dice bene), il profeta generalmente non è accettato e non è visto di buon occhio dai suoi conterranei perché il messaggio che porta “in nome di Dio” (questo il significato del termine “profeta”) è un messaggio che scomoda, che apre nuove prospettive, che lancia sguardi verso il futuro in maniera – appunto – profetica, ovvero proponendo linee di pensiero e di azione che vanno al di là di visioni e comportamenti legati al passato e alla consuetudine. I gesti profetici, nella storia del popolo d’Israele – ma anche nella storia di quel Nuovo Israele che è la Chiesa – sono quei gesti che (spesso anticipando i tempi) hanno aperto a prospettive che poi si concretizzano nel corso degli anni a venire: pensiamo anche solo all’intuizione profetica di Giovanni XXIII prima e di Paolo VI poi, che negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso attraverso il Concilio Vaticano II aprivano la Chiesa al dialogo con il mondo chiedendo alla Chiesa stessa di rimettersi in gioco, rompendo gli schemi nella quale per molti secoli era rimasta impigliata. È stata una scelta talmente profetica e visionaria che oggi, a più di 50 anni dalla sua realizzazione, la Chiesa fatica ancora a capirne la portata e la forza.
Perché, in fondo, quell’incredulità nella quale erano rimasti invischiati i cittadini di Nazareth ai tempi di Gesù, è la stessa incredulità che attanaglia la Chiesa oggi, non solo tra gli alti livelli delle gerarchie, ma – come fu per Nazareth – a partire dalle piccole comunità cristiane, che preferiscono “scandalizzarsi” di fronte alla figura di Gesù che coglierne la portata e la dimensione profetica. Ciò che viene rimproverato a Gesù non è la bontà o meno del suo insegnamento (il quale, anzi, suscita stupore, magari inteso anche positivamente), quanto il fatto che questo insegnamento venga proposto da uno di loro: cosa che non può certo (e nemmeno lo vogliono) smuovere le loro coscienze verso qualcosa di più grande, o anche solo di diverso.
Di fronte all’insegnamento di Gesù, la reazione dei suoi compaesani si esprime in cinque incalzanti domande: “Ma da dove tira fuori queste cose? Che razza di visione sapiente è mai questa? E che cosa operano le sue mani, facendo i miracoli che fa? Ha sempre usato le sue mani per fare tavoli, sedie, ruote dei carri, porte e finestre, barche per la pesca, e adesso si mette a fare il guaritore? Ma non è il figlio di Maria (cattiva, questa battuta, per la mentalità patriarcale ebraica…), e non conosciamo forse tutti quanti i suoi familiari, gente come noi, senza pretese e senza cultura?”. Oggi gli diremmo: “Parla come ti ha insegnato tua madre!”, ovvero stai fedele alla tua natura, alla tua tradizione, alla tua cultura, a ciò in cui sei cresciuto, a ciò che hai ricevuto, non spingerti oltre, stai giù basso, non volare più in alto del dovuto, eccetera…
Già, perché l’opposizione allo spirito di profezia – che comunque non ha mai smesso di soffiare, nell’Antico Israele come nella Chiesa – è soprattutto opposizione a qualsiasi cammino nuovo, a qualsiasi tentativo di andare oltre, a qualsiasi idea diversa dal solito, a qualsiasi proposta che fino a quel momento non si era mai tentata, a qualsiasi modo di pensare alternativo a quello schematico della tradizione, della storia, della consuetudine.
Ho spesso sostenuto questa cosa, e lo ribadisco ancora: io credo che una delle frasi che faccia più “imbestialire” ma soprattutto deprimere chi ha una responsabilità nella comunità cristiana (penso a me come sacerdote, ma non solo) sia la frase “Abbiamo sempre fatto così”. Nessuno, tra i sacerdoti o gli operatori pastorali, ha la pretesa di essere profetico come Gesù Cristo o come i grandi spiriti profetici della storia della Chiesa: ma se vogliamo che la comunità dei credenti in Cristo, a qualsiasi livello, dalla più importante Diocesi alla più sperduta parrocchia di questo pianeta, continui a vivere e a sentirsi viva, questa frase va proprio bandita dal vocabolario ecclesiale.
Altrimenti, continueremo a lamentare chiese sempre più vuote, comunità sempre più spente e un’incredulità sempre crescente.
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