XI domenica del tempo ordinario
“Il Signore con noi, per noi, per sempre”
Nelle letture di oggi vi è una gradualità tutta particolare per descrivere chi sono i familiari di Dio: 1) Noi siamo sua “proprietà”, perché ascoltiamo la sua voce e custodiamo la sua alleanza, per questo siamo santi e sacerdoti (1^ lettura). 2) Noi siamo “i riconciliati”, gli “amati” a prescindere, amati gratis senza un prezzo da pagare (perché pagato da Lui!) e tutto da guadagnare (2^lettura). 3) Noi siamo quelli che meritano la compassione di Dio, i compatiti da Dio, i bisognosi che meritano un pastore per essere guidati fuori dal male e dalle infermità, guidati fuori dalla morte per avere la vita eterna (Vangelo). Secondo questi punti proviamo a penetrare la parola che ci viene consegnata.
Ci piaccia o no, a scapito di ogni politically correct tanto di moda ai nostri giorni, nel Vangelo Gesù invita i suoi pastori a non rivolgersi fuori dal gregge d’Israele, quasi a delimitare un recinto, un pascolo ben preciso, un campo d’azione che non ammette fraintendimenti: “…ordinando loro: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele….”.
Ovviamente questo comando del Signore non è un assoluto perentorio, normativo, è piuttosto un percorso didattico per i “neo discepoli”, infatti più avanti, sempre nel Vangelo di Matteo, il Signore sarà chiaro sul fatto che la salvezza è attesa da tutti gli uomini e deve arrivare a tutti i popoli (cfr. Mt 28,19), ma al momento dobbiamo riflettere sui significati e le risonanze dell’essere quello che siamo per compassione ed amore del Signore, e sulla cura, anche attraverso i suoi pastori, a cui siamo soggetti come suo gregge esclusivo e riservato.
Quelli del suo gregge sono “compatiti” da Lui che sente compassione. Essere compatiti ha forse oggi un significato più negativo che positivo, probabilmente perché ci siamo dimenticati che se qualcuno ha compassione per qualcun altro non vuol dire che lo guarda dall’alto verso il basso ma dritto negli occhi: si può “compatire” (dal latino cum patior=insieme soffro) o “patire insieme” se guardo l’altro nel suo dolore, nel suo desiderio, mentre rivolge lo sguardo alla sua speranza, al suo sollievo. Per compatire devo essere fianco a fianco, costola a costola, addirittura costola uno dell’altro, come dovrebbero essere l’uomo e la donna creati a sostegno uno dell’altra, senza contare poi che dalla creazione dell’uomo in Gesù accade l’inedito creativo di Dio, cioè guardare l’uomo con gli stessi occhi dell’uomo, alla stessa altezza, di fronte, fianco a fianco, dopo essersi abbassato (kenosi) ed incarnato. Solo questo dovrebbe bastare a farci capire l’immensità dell’amore di Dio, a farci sentire privilegiati della sua compassione che per noi è salvezza, vittoria sulle nostre sofferenze, sui nostri dolori. La sua passione è venirci a cercare ovunque ci siamo persi per non perderci più, pascolarci affinché la vita sia in noi e sia la sua stessa eternità di vita. “Beati voi che io compatisco…” dovrebbe essere il riassunto di tutte le beatitudini e siamo fortunati che sia veramente così.
“Essere pascolati” è un altro dei significati non più in auge e forse odiati del nostro tempo: è innegabile che oggi si preferisca essere interpreti e padroni delle proprie scelte, anche a costo di buttarci dai pinnacoli dei moderni templi, si preferisce prostrarsi di fronte a chi promette la superbia effimera dell’”essere solo per se stessi”, di faticare per un pane che in realtà è solo una pietra che non vuole fratelli perché lo si vuole solo per se stessi. “Essere pascolati” non vuol dire avere una vita migliore ma una speranza sicura! Gesù ci dona la Chiesa che sgorga dal suo costato al fianco del nostro, ci raduna presso la sua ferita aperta sul suo di costato donandoci pastori che ci indicano la strada per abbeverarci. I pastori che egli ci dona non sono sopra il suo gregge ma nel gregge, che fanno la stessa strada del gregge, che bevono alla stessa fonte: greggi e pastori devono, in una certa misura, imparare insieme a radunarsi di fronte al Pastore supremo delle greggi, per questo non tutti possono cominciare ad essere pasciuti subito, una volta che un gregge è pronto col suo pastore può andare dappertutto a raccogliere le altre pecore, e mostrare loro come si vive da gregge del Signore, per questo serve un tempo, una crescita: se non impariamo prima ad amare ed amarci come gregge, se non impariamo a trovare consolazione e speranza nella sua compassione, se non riconosciamo che l’unico senso dell’essere gregge di pascolati è per trovare il verde pascolo della vita eterna, non potremmo mai dimostrare alle “altre pecore”, fuori dal suo gregge, quanto grande e sicura è la nostra speranza!
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