XXVI domenica del tempo ordinario

Il vangelo di questa domenica incomincia con queste parole: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti». È da notare che Gesù non dà il nome al ricco egoista: quest’uomo è definito unicamente da ciò che possiede; egli ammassa avidamente beni per sé, illudendosi forse di difendersi in questo modo dalla paura della morte, come se avere molte cose potesse impedire l’evento che lo attende al termine della sua esistenza. Chi vive per sé è un fallito e non ha nome; è niente, è zero perché ha chiuso il suo cuore all’amore di Dio. Gesù continua dicendo che quest’uomo, accecato dalla sua brama idolatra, non si accorge di «un povero, di nome Lazzaro, che stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla sua tavola». Cristo dà al mendicante un nome, Lazzaro, che significa: «Dio aiuta». Sì, quest’uomo ha un nome perché soffre, subisce ingiustizia. Lazzaro è l’uomo visitato dalla croce, l’uomo che apparentemente non conta nulla e viene calpestato, l’uomo che tutti rifiutano, che nessuno invidierebbe.

Gesù continua dicendo che «un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto». A questo ribaltamento delle sorti terrene segue un dialogo tra il ricco e Abramo. In mezzo ai tormenti il primo si rivolge al patriarca chiedendogli: «Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma». Ma si sente rispondere da Abramo: «Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti». Con queste parole Gesù non vuole impaurirci o descrivere «le pene dell’inferno», come siamo soliti pensare, ma semplicemente ricordarci che nella vita può esserci un «troppo tardi»: occorre vivere il presente come l’oggi di Dio, sapendo che ci sarà il giudizio di Dio alla fine dei tempi, nel quale l’Onnipotente ci chiamerà a rendere conto del nostro comportamento e «renderà a ciascuno secondo le sue opere» (cf Sal 62, 13; Rm 2, 6; Ap 2, 23).

Ma il ricco insiste, pregando Abramo di inviare Lazzaro ad avvertire i suoi fratelli di cambiare vita, ammonendoli «severamente» su ciò che li attende dopo la morte. Egli è convinto che «se qualcuno dai morti andrà da loro, si convertiranno». Si sente però rispondere: «Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro… Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti». Ciò significa che la fede non si fonda su miracoli o su eventi straordinari, ma sull’ascolto della parola di Dio (cf Rm 10, 17) contenuta nelle Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento.

Questa parabola ci insegna che la situazione attuale di ingiustizia e di cieca noncuranza dell’indigente verrà ribaltata da Dio, secondo l’insegnamento di Gesù, alla fine della vita. Basta pensare al cantico di Maria e alle beatitudini. Il ricco, quindi, non è condannato semplicemente perché è ricco, assolutamente no! È condannato perché indifferente, noncurante, chiuso agli altri, egoista. Il comportamento del ricco «Epulone» si chiama ingiustizia; quell’ingiustizia tanto denunciata dai profeti nell’Antico Testamento (cf Am 6, 1-7; Ger 22, 13-19; Ab 2, 6-11), quanto da Gesù e dagli apostoli nel Nuovo (cf Lc 6, 21.24; Gc 2, 5-9; 5, 1-6).

Nella I Lettura, infatti, abbiamo ascoltato il profeta Amos il quale ha davanti a sé lo spettacolo del guadagno facile durante il regno di Geroboamo II in Samaria: egli vede i potenti e i ricchi che gozzovigliano e non si preoccupano del benessere dei poveri e del destino della nazione. Questi «spensierati», che non hanno ascoltato a tempo debito gli ammonimenti del profeta, non si rendono conto che non solo manderanno in rovina tutta la nazione, ma saranno i primi «ad andare in esilio in testa ai deportati e (solo allora) cesserà l’orgia dei dissoluti». La ricchezza, dunque, non è la vera sicurezza. Oggi queste parole suonano stonate ai nostri orecchi, non vogliamo più ascoltarle. San Paolo nella prima Lettera ai Corinzi, mentre eleva l’inno della carità, ci ricorda che senza di essa noi «non siamo niente» (cf 1Cor 13, 1-3). Le persone che non amano, non hanno carità, le istituzioni che non sono al servizio dei cittadini e del bene comune, davanti a Dio, sono come inesistenti.

Il brano della Letta a Timoteo è preceduto da queste parole: «L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio, alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti» (cf 1Tm 6, 10). Dopo questa constatazione l’apostolo Paolo esorta Timoteo dicendo: «Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni» (II Lettura).

La fede, dunque, se è autentica, se «si rende operosa per mezzo della carità» (cf Gal 5, 6), si traduce in azioni concrete ispirate sull’amore fraterno. È infatti l’amore l’unica realtà su cui saremo giudicati al termine della nostra vita. Ricordiamoci le parole di Giovanni: «Se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio? Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (cf 1Gv 3, 17-18).

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