XIX dom del Tempo Ordinario
È facile intravedere nel pane che il profeta Elia mangia una prefigurazione dell’Eucaristia. Ci dice la prima lettura che “con la forza di quel cibo camminò quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio l’Oreb”.
Nella tradizione della Chiesa, questo pane di Elia è visto come “il pane del cammino”, l’alimento che dà forza nel percorso della vita, specie nei momenti di debolezza.
Elia vive un momento delicato: dopo aver combattuto da solo contro 450 profeti di Baal e aver dato prova al popolo d’Israele, sul monte Carmelo, che il Signore è l’unico Dio, è costretto a scappare perché il re lo vuole uccidere. In questo contesto difficile il profeta, noto per il suo carattere forte e veemente, per il suo zelo e la sua determinazione, ha una specie di cedimento psicologico e chiede a Dio di morire: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita perché io non sono migliore dei miei padri”.
Come risposta, Dio gli offre un pane, nel deserto, che produce in lui due effetti.
Il primo è descritto subito: “con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti, fino al monte di Dio, l’Oreb”. Si tratta di un rinvigorimento fisico notevole, che gli consente di attraversare il deserto e superare il momento di debolezza, quella debolezza che lo aveva portato ad accasciarsi sotto una ginestra e a rifugiarsi in un sonno che sembra tanto una fuga dalla realtà, un rifugio, una scappatoia comoda per non affrontare la vita.
Il secondo effetto, ben più importante, viene descritto poche righe più avanti, quando Elia raggiunge l’Oreb e ha un incontro con Dio, presso una caverna: oltre alla forza fisica, recupera anche la verità su se stesso, che è la cosa più importante. Nel colloquio con Dio si accorge che tutto quello che pensa e dice è falso. Lo scambio di battute con Dio è molto franco e sembra che il Signore gli risponda colpo su colpo, senza lasciarsi intenerire dai presunti meriti di Elia.
Elia esordisce, con un giudizio poco calibrato su se stesso: “Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti”, ma il Signore lo contraddice: “E allora che ci fai qui?”. Gli fa capire che se fosse veramente pieno di zelo, non sarebbe scappato in preda alla paura. L’immagine di sé, di uomo zelante, viene demolita in un batter d’occhio, per lasciare spazio a quella, più realistica, di una persona piena di paure e in fuga, anche da se stesso e dalla propria vocazione.
Poi Elia afferma, dimostrando di non vedere chiaramente nemmeno la situazione accanto a sé, ma di essere in preda al vittimismo: “Gli israeliti hanno abbandonato la tua alleanza”, ma Dio gli risponde senza mezzi termini che non sta dicendo la verità: “Io mi sono risparmiato in Israele settemila persone, quanti non hanno piegato le ginocchia a Baal”. Così Elia deve rinunciare ad una auto-immagine di tipo eroico, in cui il suo profilo emergeva come quello di un eroe solitario, per aprire gli occhi e rendersi conto di essere in buona compagnia. Non solo non è pieno di zelo, ma non è neppure solo.
“Essi tentano di togliermi la vita” è la sua terza affermazione, che denota un allarmismo della serie: “Se mi ammazzano, chi porterà avanti la fede in Israele?”. Ma anche qui Dio lo liquida con parole secche, che sembrano perfino dure nel loro realismo: “Va bene, allora ungerai Eliseo figlio di Safat, di Abel-Mecola, come profeta al tuo posto”. Morto un papa se ne fa un altro. Il narcisismo non sembra una cosa gradita a Dio, il quale può far sorgere nuovi strumenti dalle pietre e servirsi di altri per realizzare i propri progetti.
Questo pane che Elia mangia produce quindi, oltre al vigore fisico, un effetto importante nella vita spirituale: introduce nel dialogo con Dio, che dona una immagine più realistica di sé, una rinuncia al vittimismo e un abbandono del narcisismo.
Uscito dalla grotta, Elia è un uomo nuovo. Lo scambio di idee con Dio ha purificato il suo sguardo. Ora sa di essere un uomo in fuga, di non essere solo e, soprattutto di non essere indispensabile.
Questi, sperimentati da Elia, dovrebbero essere gli effetti dell’Eucaristia su tutti i cristiani, quando alla Domenica escono dalla Messa, dopo aver mangiato il Pane della vita.
L’esperienza di Elia si trova sintetizzata in alcune brevi espressioni dell’Adoro te devote, famoso inno eucaristico, attribuito a S. Tommaso d’Aquino: “Contemplandoti, tutto viene meno… Nulla è più vero di questa parola di Verità… Che in te io abbia speranza, che io Ti ami… Pane vivo che dai vita all’uomo”.
UN PANE CHE CI METTE IN MOTO, CI ATTIRA E CI MANDA
Ciò che nella prima lettura era solo prefigurato, nel Vangelo odierno è espresso in pienezza: il vero pane del cammino, che dà forza, vigore e conoscenza è Gesù.
Il brano di vangelo di questa domenica inizia male. Mormorare è dissentire su un argomento o un’idea (e questo non sarebbe negativo), non manifestando il proprio pensiero ma creando polemiche e chiacchiere all’insaputa del diretto interessato. Il mormorio è sempre ‘contrò qualcuno, non è mai con, non è mai costruttivo. I Giudei mormorano contro Gesù perché si è definito pane disceso dal cielo e Gesù li redarguisce, ammonendoli: “Non mormorate tra voi”.
Gesù dice: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato”.
In questa frase incontriamo tre verbi di movimento: venire, attirare, mandare.
Venire: indica un cammino, uno spostarsi, un mettersi in gioco, lasciare la stabilità (quella che oggi chiamiamo comfort zone). Non basta riconoscere che Gesù si è fatto uomo (“Costui non è forse il figlio di Giuseppe?”), ma bisogna camminare ancora, andare avanti e riconoscere in lui “Colui che viene da Dio e ha visto il Padre”. È vero che nessuno è profeta in patria, ma è altrettanto vero che non possiamo fermarci all’umanità di Gesù, non dobbiamo permettere che essa diventi un ostacolo nel cammino che porta al riconoscimento della sua divinità. “Venite a me” dice Gesù, invitandoci a nutrirci del suo corpo, sangue, anima e divinità. Questo primo verbo riguarda ciascuno di noi, la nostra volontà, il credere.
Attirare: come bimbi che muovono i primissimi passi, instabili e vacillanti, spesso perdiamo l’equilibrio e ci sediamo a terra. Allora il Padre si mette a qualche passo da noi con un gioco, o un dolce, di modo che superiamo le paure e difficoltà e il cammino sia reso più semplice da questa attrazione. Attrarre è il verbo del Padre, la sua missione, il suo desiderio. Dietro a circostanze della vita che possono apparirci come fortuite o casuali, impariamo a riconoscere la mano del Padre, che ci attrae a sé. Allora le co-incidenze diventano Dio-incidenze e ciò che pareva una pura combinazione si trasforma in chiamata.
Mandare: i teologi lo definirebbero un verbo Cristologico. Gesù è l’inviato, il mandato dal Padre. “Per questo sono stato mandato nel mondo, per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37). Certamente Gesù è venuto tra noi per guarirci, amarci, perdonarci, ma non dobbiamo dimenticare la cosa più importante: Egli è stato mandato a noi per dirci la verità su Dio, quella verità che, accolta con amore, ci dona la vita eterna.
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