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Domenica XXXII del tempo ordinario

Il cristiano sa che non tutto della sua vita e del suo futuro è nelle sue proprie mani. E nella fede, che guarda al Cristo risorto, attende il suo futuro ultimo come un dono dalle mani di Dio. In questo sta la virtù teologale della speranza. La liturgia, nel momento in cui ci orienta alla contemplazione futura del volto di Dio, ci richiama però anche alla giustizia come sua condizione: il “non-ancora” è la dimensione più radicale della nostra esistenza presente: ciò che saremo, però, è preparato ora. Vivere di speranza, perciò, non significa attesa passiva, ma esistenza operosa nella giustizia che Dio ci ha donato e reso praticabile. La vita cristiana è nutrita dalla convinzione di fede che Dio è Dio dei vivi: egli chiama alla vita, e ci farà vivere anche oltre la morte. E’ l’affermazione centrale di Gesù nel Vangelo,  in risposta alla sfida postagli dai Sadducei: la relazione vitale con Dio fonda la speranza che egli non ci abbandoni nella morte, che non lasci semplicemente annullare chi a lui si è affidato. Così proclama già la prima lettura. Ma l’incontro con il Dio della vita è una chiamata anche a promuovere la vita e a operare in favore della vita, sempre e ovunque. Questa convinzione è chiara nella seconda lettura: la salvezza è dono di un Dio fedele verso chi a lui si affida. E questa fede è generatrice di ogni opera buona.