Domenica III di Pasqua

Viandanti

È uno dei brani più conosciuti e più belli dell’intero vangelo. Nel racconto dei discepoli di Emmaus che, scoraggiati, tornano a casa loro scappando da Gerusalemme, san Luca concentra una riflessione assolutamente esemplare sulla capacità che noi uomini abbiamo di complicarci la vita. Sono tristi, i discepoli, e parlano delle loro disgrazie.

Tristi, e si caricano a vicenda, facendo a gara a chi si butta più giù, come si fa’, a volte, fra persone scoraggiate. Come se ci fosse un premio da vincere: lo sfortunato del mese. Il loro cammino è di reciproca lamentazione, di progressivo affossamento. Sconcertante.  È terribile avere a che fare con persone che, quando vedono che sei afflitto, invece di incoraggiarti iniziano anch’esse a fare l’elenco delle loro disgrazie.

Mal comune non fa mai mezzo gaudio. Spesso, fa doppia tristezza.

Compagno di viaggio

Gesù si avvicina e cammina con loro. Non se ne accorgono, come potrebbero? Non alzano lo sguardo da loro stessi per incrociare lo sguardo del Signore. Sono talmente pieni del loro santo dolore da non accorgersi che la ragione della loro sofferenza non esiste più!

Sono incapaci di uscire dalla gabbia che si sono creati. E li prende per il naso. Perché quella faccia?

Maleducato

Sono offesi, ora, i discepoli. Da dove viene questo buzzurro? Non si vede a sufficienza che sono tristi? Non hanno il volto sufficientemente disperato? Come si permette questo sciocco straniero di interrompere le loro lamentazioni? Non sa della situazione mondiale? Del terrorismo? Della crisi economica? Ci rassicura, il dolore, ci dona identità, ci identifica. A volte, purtroppo, in un percorso insalubre e folle, finiamo col coltivare questa identità.

Finiamo col coltivare il dolore. Ho perso un figlio. Sono un infartuato. Mio marito mi ha lasciata. Il dolore diventa il nostro segno di riconoscimento: così ci presentiamo, così vogliamo che ci riconoscano, sperando, magari, in un cenno di benevolenza, in un gesto di compassione. Illusi. Quando capiremo che la gente fugge il dolore come la peste? È da abbandonare, il sepolcro, da superare, non da usare come segno di riconoscimento. Sono offesi, i discepoli restati orfani. Cosa è successo? Chiede il risorto. Parlano della sua croce, e Gesù nemmeno se ne ricorda. E pronunciano la frase più triste dell’intero vangelo. Noi speravamo.

Tristezza

La speranza è sempre rivolta al futuro. Declinarla al passato significa ammetterne il totale fallimento. È difficile accettare il fallimento di un progetto, di un’azienda, di un gruppo parrocchiale. Il fallimento della speranza porta alla morte interiore. Noi speravamo: che sciocchi siamo stati a seguire il Nazareno, a credere che fosse lui il Messia! Che ingenui! Noi speravamo: ci siamo illusi, siamo stati degli idioti abissali, non abbiamo giustificazioni! La speranza è morta su quella maledetta croce. È morta e sepolta con Gesù, nel sepolcro regalato da Giuseppe di Arimatea. Quanti ne conosco di discepoli così, tristi e rassegnati! Noi speravamo, dicono i discepoli. E intanto il Signore che credono morto cammina con loro.

Rimbrotti divini

Descrivono con dovizia di particolari le vicende che riguardano il Maestro, i discepoli restati orfani. Si aspettano comprensione, compassione. Ottengono uno schiaffo in pieno volto. Sciocchi e tardi, dice loro lo straniero. La sua provocazione li scuote, li costringe ad alzare lo sguardo. Cosa sta dicendo questo maleducato? Come si permette? Sciocchi a tardi nel credere, insiste. Gesù spiega il senso di quella sofferenza, della sua sofferenza, e li aiuta a rileggere tutti gli eventi in una chiave diversa, più ampia, a leggere il dolore alla luce del grande disegno di Dio. Sono fermi alla croce, i discepoli del risorto. Possiamo continuare a fissare il bruco, senza accorgerci che sta per diventare una farfalla. Non sempre chi ti dà una carezza ti vuole bene. Non sempre chi ti dà uno schiaffo ti vuole del male. A volte una bella scrollata ci distoglie dal dolore e ci aiuta a vedere le cose in maniera diversa. Arde, ora, il cuore dei discepoli. Il loro dolore inutile, paradossalmente gratificante, è spazzato via dalla Parola che riscalda e illumina. Tutto acquista senso, una dimensione nuova. La loro vita, riletta alla luce del grande progetto di Dio, assume un colore completamente diverso.

Perché avete paura?

Era una famigliola felice e viveva in una casetta di periferia. Ma una notte scoppiò nella cucina della casa un terribile incendio. Mentre le fiamme divampavano, genitori e figli corsero fuori. In quel momento si accorsero, con infinito orrore, che mancava il più piccolo, un bambino di cinque anni. Al momento di uscire, impaurito dal ruggito delle fiamme e dal fumo acre, era tornato indietro ed era salito al piano superiore. Che fare? Il papà e la mamma si guardarono disperati, le due sorelline cominciarono a gridare. Avventurarsi in quella fornace era ormai impossibile… E i vigili del fuoco tardavano. Ma ecco che lassù, in alto, s’aprì la finestra della soffitta e il bambino si affacciò, urlando disperatamente: “Papà! Papà!”. Il padre accorse e gridò: “Salta giù!”. Sotto di sé il bambino vedeva solo fuoco e fumo nero, ma senti la voce e rispose: “Papà, non ti vedo…”. “Ti vedo io, e basta. Salta giù!”, urlò, l’uomo. Il bambino saltò e si ritrovò sano e salvo nelle robuste braccia del papà, che lo aveva afferrato al volo.

Non vedi Dio. Ma Lui vede te. Buttati!

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