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Domenica 1^ di Avvento

Parola d’ordine: Vegliate!

La prima domenica d’Avvento ci invita a uscire dal banale, a non perdere tempo. Quando noi celebriamo l’Avvento, non rappresentiamo un dramma, non ci trasferiamo nella situazione dell’umanità non ancora redenta, ma, nella certezza che il Signore è già venuto, cerchiamo di preparare il nostro cuore a riceverlo, prendendo esempio e incitamento dall’attesa dei Patriarchi, dei Profeti e del popolo degli umili, il piccolo resto d’Israele. Ecco perché, in assoluto, le figure portanti dell’Avvento sono anzitutto Maria e Giuseppe.

Chi vive liturgicamente la vita esce dal tempo, entra nel «divino», in cui non c’è né passato né futuro. Il contenuto divino dell’evento di Betlemme non appartiene al tempo, non è di duemila anni fa. Non «fu», ma «è». Che Dio si sia fatto bambino non è un fatto passato, avvenuto, scontato, bello da ricordare, pieno di insegnamento, e stop. Pensare a Gesù Bambino non è come pensare a Don Bosco bambino, a S. Francesco bambino o a noi quando eravamo piccoli.

Sentite Odo Casel, un grande liturgista, precursore del Concilio Vaticano II: «Si tratta di far nostre queste grandi realtà della salvezza, non semplicemente di contemplare e imitare nel sentimento la vita terrena del Signore nei suoi particolari. Questo potrebbe farlo anche un non battezzato, mentre noi cristiani e cattolici siamo chiamati a celebrare il mistero di Cristo. Non servendoci dei nostri propri pensieri – come sono impotenti di fronte alle opere di Dio! – ma servendoci della potenza che ci viene dallo Spirito di Dio».

Lo Spirito Santo ci rende contemporanei all’evento celebrato. È urgente attendere. Ognuno di noi è misurato dalle sue attese. Si tratta di ridurre i nostri desideri fino ad averne uno solo, forte, travolgente. L’amore è tutta questione di desiderio.  

…è ormai tempo di svegliarvi dal sonno…

E’ qui emerge il primo imperativo solenne dell’Avvento: «Vegliate».

È un invito pressante a prendere coscienza dei sonniferi del mondo, che Paolo ricorda ai Romani: gozzoviglie, impurità, contese, gelosie.

Come ai tempi di Noè… «non si accorsero». Il sonnifero ti impedisce di accorgerti. Chi veglia si accorge. Vegliare, letteralmente, significa non dormire. Metaforicamente, lottare contro il torpore del cuore e della mente.

Ci viene in mente il sonno-fuga dei tre discepoli nel Getsemani (dormivano «per la tristezza», dice Luca).

Il torpore genera l’oblio. La veglia genera il ricordo. Il ricordo genera la gioia.

Si può vegliare per parecchi motivi: per lavorare, per divertirsi, per insonnia, per vegliare un bambino o un malato, per pregare.

Il vegliare di cui parliamo qui, naturalmente, appartiene alla sfera dello spirito, del «gratuito». È questione di amore. È puntare gli occhi sull’essenziale. Concretamente, significa: 1. Fermarsi. 2. Meno rumore, più silenzio. 3. Tagliare sui sonniferi (TV…) 4. Dare il primato alla preghiera.

Un povero vecchio

C’era una volta un vecchio che non era mai stato giovane. In tutta la sua vita, in realtà, non aveva mai imparato a vivere. E non avendo imparato a vivere, non riusciva neppure a morire. Non aveva speranze né turbamenti; non sapeva né piangere né sorridere. Tutto ciò che succedeva nel mondo non lo addolorava e neppure lo stupiva.

Passava le sue giornate oziando sulla soglia della sua capanna, senza degnare di uno sguardo il cielo, l’immenso cristallo azzurro che, anche per lui, il Signore ogni giorno puliva con la soffice bambagia delle nuvole. Qualche viandante lo interrogava. Era così carico d’anni che la gente lo credeva molto saggio e cercava di far tesoro della sua secolare esperienza. “Che cosa dobbiamo fare per raggiungere la felicità?” chiedevano i giovani. “La felicità è un’invenzione degli stupidi” rispondeva il vecchio. Passavano uomini dall’animo nobile, desiderosi di rendersi utili al prossimo. “In che modo possiamo sacrificarci per aiutare i nostri fratelli?” chiedevano. “Chi si sacrifica per l’umanità è un pazzo” rispondeva il vecchio, con un ghigno sinistro. “Come possiamo indirizzare i nostri figli sulla via del bene?” gli domandavano i genitori. “I figli sono serpenti” rispondeva il vecchio. “Da essi ci si possono aspettare solo morsi velenosi”.

Anche gli artisti e i poeti si recavano a consultare il vecchio che tutti credevano saggio. “Insegnaci ad esprimere i sentimenti che abbiamo nell’anima” gli dicevano.

“Fareste meglio a tacere” brontolava il vecchio.

Poco alla volta, le sue idee maligne e tristi influenzarono il mondo. Dal suo angolo squallido, dove non crescevano fiori e non cantavano uccelli, Pessimismo (perché questo era il nome del vecchio malvagio) faceva giungere un vento gelido sulla bontà, l’amore, la generosità che, investite da quel soffio mortifero, appassivano e seccavano.

Tutto questo dispiacque molto al Signore, che decise di rimediare. Chiamò un bambino e gli disse: “Va’ a dare un bacio a quel povero vecchio”. Il bambino obbedì. Circondò con le sue braccia tenere e paffute il collo del vecchio e gli stampò un bacio umido e rumoroso sulla faccia rugosa. Per la prima volta il vecchio si stupì. I suoi occhi torbidi divennero di colpo limpidi. Perché nessuno lo aveva mai baciato. Così aperse gli occhi alla vita e poi morì, sorridendo.

A volte, davvero, basta un bacio. Un “Ti voglio bene”, anche solo sussurrato. Un timido “Grazie”. Un apprezzamento sincero. E’ così facile far felice un altro. Allora, perché non lo facciamo?